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Il giorno del Ringraziamento le figlie minori delle famiglie Dover e Birch spariscono. Accusato del rapimento è il giovane Alex, un ragazzo che soffre di un discreto ritardo. Viene presto rilasciato per mancanza di prove a suo carico, ma Keller Dover, il padre di una delle due piccole, è talmente convinto del suo coinvolgimento da decidere di rapirlo e torturarlo per fargli confessare il luogo in cui si trovano le bambine.
Io vi odio, quando indugiate sul dolore.
Quando girate quelle scene volutamente strappalacrime, magari anche con la splendida e malinconica musichetta sotto.
Vi detesto.
Mi pare di guardare Studio Aperto, e a me Studio Aperto causa frequenti conati di vomito e rush cutanei.
Prisoners, invece, non lo fa.
Esplora quantità di dolore quasi impossibili da narrare, ma mai che lo faccia con autocompiacimento, con voyeurismo, con volutissima voglia di strapparvi quelle lacrime di dosso.
Prisoners in due ore e mezza tocca punte di sofferenza atroci, e ce le mostra con una freddezza, un grigiore e un cinismo che sono quasi allarmanti.
Perché il regista non ci vuole in lacrime, ci vuole attenti.
E questo siamo.
Concentratissimi, lo sguardo immobile, la mente aperta sulle diverse vicende.
La sensazione che ne ho avuto è che il rapimento delle bambine e la conseguente indagine non fossero altro che un pretesto (ottimamente costruito, eh) per prendere in analisi il modo in cui due famiglie affrontano l'uragano di stress, dolore, e angoscia che le ha investite.
Da un lato la famiglia Birch è dignitosissima, soffre in un composto silenzio, rotto solo dallo sfogo della figlia maggiore.
La famiglia Devon, invece, crolla. La madre si affloscia su se stessa, è costretta a ricorrere a farmaci per riuscire a sopravvivere, a dormire. Il padre si trasforma in carnefice, la rabbia e il dolore gli annebbiano il senso dell'etica, ritrovare sua filia conta più di ogni altra cosa, anche di fronte all'evidente disturbo di Alex. Solo il figlio maggiore dimostra un'incredibile maturità, aiutando il padre e sostenendo la madre.
Altrettanto articolato è Loki, il detective che si occupa del caso, con il suo tic all'occhio, il suo atteggiamento duro e inflessibile, i suoi tatuaggi.
Ognuno di questi personaggi (tutti splendidamente interpretati, ma Gyllenhal è una BOMBA) si muove in questo impietoso panorama di provincia, così grigio e piovoso che pare una manifestazione dei cuori spaccati dal dolore.
Non si capisce chi sia il vero prigionero, qui, se le bambine prese in ostaggio o le famiglie imprigionate dalla sofferenza.
Un gran, gran film, in cui non esistono buoni o cattivi, ma umani ripresi in tutte le loro sfaccettature. Così, finalmente, la vittima non è solo il pover'uomo buono come un tocco di pane, ma anche l'uomo fortissimo, determinato, anche crudele. E il carnefice non è solo il folle, la persona detestabile e immotivata. Può anche essere una persona la cui mente è completamente annullata, anch'essa, dal dolore.
E tutto questo, insieme, non ti fa togliere gli occhi dallo schermo.
Per due ore e mezza che scorrono veloci come una.
(Ma l'attore che fa Alex non è ugualeuguale al moroso di Joan of Arcadia?)
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