Tra le mani un libro piccolo, dalla grafica suadente ed oscura.
In copertina il profilo di una bambina con le braccia alzate; sulla quarta, un albero.
Ombre che chiamano.
Ombre che fanno paura.
Sembrerebbe l’invito a varcare le soglie di una fiaba.
Ma il titolo, a caratteri rossi, avvisa il lettore: “Non sono cappuccetto rosso”.
E la non-fiaba ha inizio, con un ordine cronologico completamente sfalsato, i capitoli sono pezzetti taglienti di un vetro infranto.
Il lettore riesce a comporre qualcosa, man mano, fino ad ottenere un’immagine oscura e deformata, come il disagio che viene comunicato attraverso le parole che, a volte, sono collante fra i ricordi, a volte, invece, martelli che sminuzzano ancora di più.
Roberta è una bambina, sempre, anche quando il titolo del capitolo precisa che è una donna. Talvolta retrocede perfino allo stato fetale del sonno e della non memoria, richiudendosi in un ventre protettivo in cui l’esterno è altro da sé e lo si percepisce solo da rumori ovattati.
Poi la luce.
Il colore.
Il colore orrendo della verità.
Disgustoso.
Ma solo da quell’impasto di tempera e violenza, che riaffiora alla memoria dall’infanzia e che la madre di Roberta conferma e precisa con ulteriori dettagli, la protagonista diventa finalmente libera, adulta, cosciente. Si auto-partorisce.
A Roberta Nicolò, autrice del racconto autobiografico “Non sono cappuccetto rosso”, va tributato l’onore di una penna graffiante e analitica, il coraggio di non tacere e di invitare altri a non farlo.
Dalla pancia del lupo se ne esce con il coltello della parola e con il potere che essa ha di fare luce sull’oscuro all’apparenza insondabile, squarciando viscere, pelle, peli e pregiudizi sull’attendibilità di una vittima di soli cinque anni. Una vittima che ora non lo è più. Non è mica cappuccetto rosso.
Un libro piccolo, non un piccolo libro.
Emma Fenu