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Si dice che il destino sia scritto nelle stelle e non ho motivo di dubitare che per molti sia così, ma non lo è per me: il mio lo hanno spalmato insieme al cioccolato nei baci di dama. Non sto scherzando! Rincorrendo il filo rosso che lega quel che sono ora con quel che è stato devo riconoscere alle specialità tortonesi il fascino di una chimera che mi saputo attrarre a se con forza, inducendomi ad imboccare quella via nel cui vago orizzonte pareva materializzarsi il mio amato biscotto, sebbene la sua diafana immagine fosse ancora incerta (col senno di poi mi domando se sia davvero casuale questa affinità elettiva per un pasticcino di certa origine in terra piemontese). Da buona golosa quale sono non ho saputo resistere al richiamo di burro, uova, zucchero e farina. La strada si è complicata, divisa, ramificata ed attorcigliata ma il cammino ha da subito rivelato due direzioni privilegiate: una mi sta conducendo alla graduale e continua scoperta delle terre ossolane, l'altra si è trasformata in una travolgente discesa nella folle ed irrinunciabile passione per la pasticceria. I baci di dama li porto nel cuore sin dall'infanzia, quando la mia amata zia me ne regalava di quelli 'veri', che arrivavano proprio da Tortona. La mia ingenuità di fanciulla non riusciva neppure ad immaginare che potesse esistere un dolce più buono, ma nonostante siano passati molti anni e molti sapori si siano avvicendati, continuano a provocarmi una sorta di dipendenza, soprattutto se la farina è di nocciole**.
Quindi converrete con me che, una decina di anni or sono, quando mi si disse "domenica avrei intenzione di andare a Tortona" non fosse il caso di rifletterci troppo a lungo.In un freddo pomeriggio di fine inverno diedi così inizio ad una lunga serie di 'prime volte' a cominciare dal mio primo vero incontro con il Piemonte, non perchè non ci fossi mai stata, ma quel giorno, forse favorita dalla dolcezza ritrovata, guardai con occhi nuovi, spalancati finalmente, una regione in cui stanno ben nascoste enormi ed incredibili potenzialità.Devo essere sincera su di una cosa però: ho continuato ad essere convinta, come spero accada soltanto a pochi altri italiani, che di Domodossola esistesse solo la 'D', come fosse una città quasi inventata per essere un codice alfanumerico perfetto. Ho impiegato qualche tempo a scoprire la geografia del Piemonte e ad individuare la vera collocazione di 'Domo' perchè la strada in cui da poco mi stavo inerpicando non era certo la direttissima per le terre del verbano-cusio-ossola. Ancora non avevo coscienza della preda, ma istintivamente mi avventuravo nella perlustrazione del territorio tutto intorno, annusando, assaggiando, toccando ed osservando. Ho girovagato lungamente, talvolta allontanandomi anche migliaia di chilometri, travolta da un odore o da un colore esotico, ma ogni passo, sebbene mosso in direzione opposta, alla fine mi avrebbe ricondotta qui, sulle tracce del selvatico cuore ossolano.Sorrido ripensando alla gita sul Mottarone qualche mese più tardi. Rigorosamente in auto. La fatica di una ascesa era un'idea insopportabile, dieci minuti a piedi dal parcheggio sarebbero stati più che sufficienti per riavvicinarmi alla montagna, paesaggio ormai dimenticato da anni. Sapevo che il panorama sarebbe stato vertiginoso, ma l'esperienza è riuscita a superare le più rosee aspettative. Per fortuna accade talvolta. Dalla cima di quel "panettone" ero in grado di ammirare tanta parte di lago e cime così numerose da rimanerne confusa. I miei occhi arrancavano nel tentativo di studiare quei luoghi, ancorandomi agli unici elementi intelleggibili che potessero raccontarmi il paesaggio: le città, le strade, le macchie di vegetazione e poco altro. L'emozione della novità, qualcosa di mai visto; ne fui sopraffatta e non pensai altro.Eppure un piccolo seme era caduto in un terreno fertile, ma i tempi non erano maturi per esserne consapevole. Il colpo di fulmine scoccò fragorosamente tempo dopo, nel Parco Nazionale della ValGrande, precisamente a Curgei. Era estate, una giornata assolata, calda e calma. Io non avevo nè fiato nè gambe ma avevo smisurata fiducia in chi assicurava che ne sarebbe valsa la pena. Il piccolo seme aveva disperatamente bisogno di energia per cacciare le radici e buttare fuori dalla terra i suoi dicotiledoni, avrebbe potuto farlo solo se avessi preso coraggio e mi fossi avventurata sul sentiero. Giunsi al bivacco del Gufo con la testa bassa e gli occhi stravolti, ma quando trovai la forza di distogliere lo sguardo dalla punta degli scarponi, lo spettacolo mi ubriacò. Misteriosamente la fatica sciolse il grumo dallo stomaco e si riversò a terra, lontana da me, mi sentii più leggera e il tempo impiegato sembrò solo un attimo. Una valle impervia e scura, il Monte rosa così vicino che mi pareva di toccarlo, silenzio infinito. Facile, direte voi, innamorarsi di una bellezza mozzafiato. Come darvi torto: tanta perfezione incanta e sconvolge. Eppure Curgei è stato solo l'incontro in cui si è accesa la scintilla dell'infatuazione. Perchè diventi amore occorre mettersi in gioco: viversi, toccarsi e mescolarsi, altrimenti sono solo chiacchiere. Ho iniziato così a corteggiare la terra ossolana, con lentezza e misura, con delicatezza e pazienza, secondo quello che le forze mi hanno consentito. Ho imparato a leggere nella montagna numerosi altri vocaboli oltre a due soli fino ad allora a me noti, ovvero fatica estenuante e paura. Tra le foglie dei faggi, in un prato assolato, lungo l'orlato dell'orizzonte, in mezzo ai fiori spontanei, insieme al canto degli uccelli oppure dentro l'acqua di una fonte ho scovato pregi ammalianti: meraviglia, forza, natura, pace ma su tutti fatica rigenerante. Temevo che non sarei mai stata in grado di essere costante nella conquista, perchè quando il dolore alle gambe monopolizza il tuo cervello pensi che lo sforzo sia tutto fuorchè rigenerante, ma l'amore stava germogliando e con esso l'intesa, emozione irrinunciabile. Ad un certo punto la confidenza è stata tale che ho potuto mangiare dal suo stesso piatto a piene mani. Un autunno mi sono ritrovata in un circolo tanto conosciuto ed apprezzato quanto sperduto tra le valli. Finalmente incontravo Tiziano, figura ormai mitica per via della sua simpatia e delle sue memorabili prelibatezze. Il caldo della stufa, il nero impenetrabile della sera dietro ai vetri, le pareti allegre e tante belle facce: una convivialità dimenticata che fa sedere attorno allo stesso tavolo amici e sconosciuti, senza troppe formalità o parole di convenienza, ma sorrisi genuini e gesti spontanei di chi sa ancora dividere un pezzo di formaggio affinchè ce ne sia per tutti. Ascoltavo i racconti di chi conosceva a fondo quei monti e registravo attenta i discorsi sulla unicità dei formaggi che presto avrei gustato, ma i miei occhi non distoglievano lo sguardo dal panetto di burro: un poco spalmato sul pane nero, un morso e mi sono ritrovata al pascolo a mangiare terra, sottobosco ed erbe. Era latte di capra. Una bontà rara e intensa che mi ha avvolta con lo stesso calore di un lungo abbraccio fraterno.Ancora prime volte: i primi funghi, la prima ciaspolata, il primo zaino da quaranta litri, i primi mille metri di dislivello (e forse gli unici!), la prima escursione sotto la pioggia. Frugo tra i ricordi di acqua battente e mi ritrovo nel bosco autunnale, a terra umidità arancione di foglie cadute, in cielo nebbia e alberi che svaniscono pochi metri sopra la mia testa. Scarponi che non fanno presa e silenzio sordo eccetto il ticchettio irregolare di gocce, perchè se il bosco è fitto non lascia passare neppure la pioggia ma la spezza e la tiene sospesa, facendole cercare strade meno dirette per arrivare al suolo. Tutti i suoni, che fino a poco prima parevano dilatarsi intorno, erano trattenuti a terra dall'acqua che inzuppava ed appesantiva ogni cosa. Ero fradicia eppure non sentivo il freddo, colta di sorpresa poco prima della faggeta non ero riuscita a mettermi l'impermeabile per tempo. Camminavo con attenzione per non mettere piedi in fallo: quale grande sforzo di concentrazione richiedeva, potevo contare solo sulle mie ginocchia e sulla mia lucidità, ma in realtà non mi serviva altro. Non servirebbe altro nella vita, a dire il vero. La lezione di una esistenza essenziale priva di superfluo l'avevo fatta mia da tempo, imparata percorrendo altre montagne in passato, ma solo qui in Ossola mi ha smosso le viscere. Per la prima volta può accadere persino di camminare a lungo senza scarponi. E' stato poche settimane fa, durante la salita verso il Monte Spalavera: il prato fresco e tenero era troppo invitante e non ho saputo resistere al desiderio di liberare i piedi. Meraviglioso contatto con il suolo, sensazione ormai inusuale per i miei arti, atrofizzati rispetto alle loro reali potenzialità. Ho provato un senso di libertà molto antico, carico della forza di chi abitando i boschi ha sfidato a lungo questi luoghi aspri, solitari ed impervi a piedi scalzi. Toccavo una terra tiepida e morbida che accoglieva e cullava ogni mio passo con armoniosa naturalezza quasi sapesse già tutto di me, il mio peso e l'ampiezza della mia falcata per esempio, una simbiosi totale che era già in essere ma di cui mi sono resa conto soltanto con la 'nudità'. Ero felice.Improvvisamente ho capito quanto fossi stata scioccamente presuntuosa sino a quel momento: non io, difettoso ed insignificante omunculo, sono la chiave di questo profondo legame, non io sto conquistando l'essenza di questo territorio, ma soltanto l'Ossola stessa sceglie a chi svelare il suo mistero. Io ho sentito di essere stata accettata sebbene non sia un campione nell'affrontare le sue asperità. Ho sentito di aver trovato casa e sul mio volto si è schiuso un enorme sorriso.Io non sono ossolana questo è certo, e con una certa sicurezza posso affermare che non sarò mai un'alpinista, mi limito ad aggirarmi per i monti cercando ogni volta di fare qualche metro in più, ma mi sono innamorata di queste cime e di queste valli, di questi pendii e di questi boschi, fino ad esserne ricambiata. Questa incredibile terra mi ha accolta come una grande madre prenderebbe a se un'esule figlia.
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*chiedo scusa alle zone del verbano e del cusio se per rendere più snello il testo userò sempre come riferimento territoriale l'ossola, in realtà intendo la provincia VCO tutta intera.
**BACI DI DAMAIngredienti . 200 g di burro . 200 g di farina . 200 g di nocciole tostate. 150 g di zucchero semolato. 1/2 bacello di vaniglia. un pizzico di sale
. 200 g di cioccolato fondente
Temperatura: 160°Tempo di cottura: 20/25 minuti fino a doratura
Preparazione
Frullare le nocciole con lo zucchero fino ad ottenere una farina piuttosto sottile, se necessario aggiungere poca farina per evitare che le nocciole si surriscaldino eccessivamente e rilascino il loro olio. Unire alla farina setacciata e tenere da parte. In una ciotola lavorare il burro morbido (ma non molle), i semi di vaniglia e il pizzico di sale. Unire il mix di farine alla crema di burro, impastare velocemente per formare un panetto omogeneo. Avvolgere l’impasto nella pellicola e lasciare riposare in frigo circa due ore. Riprendere l’impasto e ricavare tante palline grandi quanto una grossa nocciola, lasciarle nuovamente raffreddare in frigorifero per mezz’ora. Disporle sulla teglia rivestita di carta forno e cuocere in forno fino a quando i bordi non saranno lievemente dorati. Una volta che i biscotti sono freddi accoppiare i baci con una goccia di cioccolato fuso. Lasciare rapprendere. Conservare in una biscottiera di latta.Il giardino dei progetti.
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