Una volta, durante una serata in biblioteca, mi chiesero di citare il passo di un libro che mi avesse particolarmente colpito. Mi vergogno a ricordarlo, mi vergogno ad ammetterlo. Non perché non avessi un passo da citare, ma perché mi trattenni e non ne riportai uno dai libri di Stephen King, che pure è l’autore che mi lascia sempre le emozioni più intense. Parlai di un romanzo di Scarlett Thomas, invece (altra autrice da non-intellettuali come me), ma aggiunsi il capitolo finale dell’Ulisse di Joyce, come se dovessi per forza dare in pasto qualcosa di colto al pubblico.
Leggere, per me, così come guardare un film o studiare, non è un modo per raccogliere materiale con cui arricchire le mie conversazioni di alta cultura. Leggere è un divertimento, un passatempo. Mentre leggo un libro, non cerco significati, concetti tra le righe, morali, insegnamenti. Leggo, punto e basta, assisto a una storia, conosco personaggi, entro a far parte di vicende che sono così come appaiono e non metafore per qualcosa di più profondo. Non a caso scelgo un certo genere di romanzi.Quando scrivo accade la stessa cosa. Scrivo per raccontare, non per insegnare. E se scrivo in quel modo, in quei termini, di quella storia, non è perché mi ispiro a Pinco Pallino, non è perché vorrei far capire ai posteri qualche profonda realtà contemporanea. Voglio dare espressione alle molteplici voci, alle molteplici correnti che popolano la mia mente. Voglio raccontare le loro storie, dipingere quadri con parole anziché colori. Non pretendo che i miei libri lascino ricordi duraturi alla gente, mi basta che, mentre leggono, si divertano.
E che non guardino a me come a un intellettuale.