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Non sono una signora, il ‘piucheprefetto’ e il prete

Creato il 22 ottobre 2012 da Cassintegrati @cassintegrati

Anche chiamare “signora” una donna nello svolgimento del suo lavoro – sia essa un prefetto o un medico – può essere una violenza. Nei giorni in cui riemerge il dibattito sulla discriminazione femminile, ecco il pensiero di Silvia Bencivelli, giornalista: “Ho visto un video. C’erano un prefetto e un prete. Lo confesso subito: si tratta di due categorie per le quali non nutro nessuna simpatia. Non quella dei prefetti, in particolare, ma quella dei maschi anziani di potere. Quella dei preti, invece, la trovo antipatica in generale, però in questo caso non c’entra”.

Nel video in questione il prete non è vestito da prete ed è in mezzo a un sacco di gente educata, che presumo essere cittadini portatori di un’istanza giusta. Stanno discutendo con la politica della gestione di un enorme problema sanitario e ambientale che li tocca troppo da vicino. Il prefetto, invece, è seduto a un tavolo insieme ad altre persone importanti. Il video è stato girato con un telefonino da qualcuno che è nel pubblico. Ovviamente, quello è il mio punto di vista. Sono nel pubblico anch’io.

Nel video si vede da subito il prete, in piedi, che quasi timidamente racconta di essere stato ricevuto da una signora, gentilmente, che la signora lo ha ricevuto al mattino, la signora. La signora in questione è chiaramente un prefetto. Al primo signora sobbalzo sulla sedia: il tono del prete è educato, e sta parlando dalla mia parte, ma davvero ha detto signora? Al secondo cerco lo sguardo della prefetto, che è imbarazzato: vorrei urlarle reagisci, cazzo, fallo per noi! Al terzo mi verrebbe direttamente voglia di strozzare il prete. E pazienza se sul merito ha ragione. Lo strozzerei.

Solo che, attenzione, c’è la sorpresa.

A fare quello che avrei fatto io, vinta dalla drammatica consapevolezza di non poter strozzare nessuno, è il prefetto maschio, anziano e di potere. Che chiede, piccato: di quale signora sta parlando, mi scusi? Il prete insiste e indica la prefetto continuando a chiamarla signora. Il prefetto corregge il prete. E io penso però, bravo: non mi era mai capitato di sentire un uomo correggere un altro uomo che chiama “signora” una donna che sta lavorando in un ruolo per cui gli uomini vengono chiamati “dottore”, “avvocato” o, appunto, “prefetto”.

Però poi il prefetto perde la brocca ed esagera coi rimproveri. E io penso dai, basta. Il prete si difende dicendosi pretino di periferia. Il prefetto reagisce con ancor più rabbia. La mia antipatia per la categoria dei preti non basta a farmi giustificare tutta quella animosità, per quanto la difesa da pretino di periferia in un dibattito pubblico mi sembri scarsina. Non so da quanto tempo fossero lì, quanto fossero stanchi, il prete e il prefetto. Il prefetto aveva ragione da vendere, penso, ma oggi farebbe bene a confessare di aver ceduto troppo presto al fastidio*. Comunque, fastidio o no, nonostante il pretino paralizzato come uno studente impreparato, che si gira ripetutamente verso la telecamera a cercare consenso tra il pubblico, e con una voce femminile querula, che insiste a difenderlo, alla fine del video io mi sento di difendere il prefetto. Eh sì. Almeno per quei primi dieci secondi di signora a chi? che in questo paese sono considerati un po’ troppo questione di forme. Ha ragione il prefetto.

Perché no, non è questione di forme. Se lui lo chiami prefetto, lei la devi chiamare prefetto, se lui lo chiami dottore, lei la devi chiamare dottoressa e così via, con tutta la meravigliosa ricchezza che la lingua italiana ti concede. Non è questione di forme. Lasciatelo dire a chi queste forme le vede violare di continuo, con insopportabile leggerezza, e vi legge dietro una questione di sostanza che si risolve in un’umiliazione. Lasciatelo dire a chi si sente umiliata, dalle vostre forme.

Nella mia vita precedente, per poco tempo, lo ammetto, ho fatto il medico. Avevo i capelli corti corti, il camice bianco, il fonendoscopio blu, e un’etichetta sul petto che diceva dottoressa Silvia Bencivelli. Eppure tutti i giorni mi sentivo chiamare signorina: e non una, ma dieci volte al giorno. Il mio collega veniva chiamato dottore. E non sorprendetevi se sottolineo il fatto che a segnare questa distanza formale erano soprattutto, guarda un po’, i pazienti maschi anziani. Quelli che, corretti, invece di scusarsi sorridevano sornioni e pensavano esagerata… e che caratterino…

Avrei voluto spiegare loro che io ero dottore quanto il mio collega, e che anzi mi ero laureata prima e meglio di lui. Se mi chiamavano signorina avrei al più potuto comportarmi da quello che signorina significa: un’estranea femmina di giovane età. Non un medico. Una a cui si chiede un’informazione per strada, non una che ti tocca la pancia dopo averti sollevato il pigiama. Invece la mia soluzione fu, semplicemente, la decisione di ignorarli. Ignoravo la voce di chi mi chiamava signorina nell’esercizio della mia professione. Non riuscivo, e non riesco, a non leggere in quel richiamo una sorta di antica diffidenza nei confronti di una donna che fa un mestiere prestigioso e importante, di cui sembra galante sottolineare l’avvenenza e la giovane età piuttosto che la professionalità. Non è galante per niente, cari pazienti: è svilente, deprimente, stupido. E se voi non guardate la mia etichetta sul petto, io non sento i vostri richiami: significa che non ci riconosciamo reciprocamente nel ruolo che in questo posto dovremmo avere. Pazienza. Rivolgetevi a un dottore: a me comunque il lavoro non mancherà**.

Adesso che faccio un’altra vita, succede lo stesso. Non pretendo di essere chiamata dottoressa, anzi: adesso mi suona anche molto ridicolo nei contesti in cui lavoro. E poi in questi anni ho coltivato un nome più che un titolo: a volte ho la sciocca pretesa che basti il primo. Ma succede lo stesso, in mille altre forme. Succede di essere tra pari, o in una situazione professionale in cui mi muovo tra scienziati e giornalisti, e di essere chiamata signorina mentre gli altri sono professori. Peccato che quei professori siano lì per me e che mi trattino, invece, con grande rispetto (e forse un po’ di curiosità, ma di quella buona, da scienziato). A volte sono loro a imbarazzarsi per primi, mentre io mi mordo la lingua.

Una volta dovevo moderare un incontro, ma fui scambiata per una delle ragazze che lavorano per l’organizzazione. E mi lasciarono in disparte (chiesi di essere pagata lo stesso, eh). Un’altra volta vidi un signore in platea chiamare l’anziana organizzatrice dell’evento e chiederle, bisbigliando preoccupato, ma l’intervista mica la fa quella ragazza lì? Poi, a onor del vero, il signore alla fine venne a farmi i complimenti, quasi a testa bassa, anche se non sapeva che io prima lo avevo sentito (in questo caso ti fanno i complimenti per la grinta e per il carattere, non per la preparazione e l’abilità, ma va bene lo stesso).

Il più delle volte mi fanno semplicemente notare come io sembri molto giovane, il ché mi fa pensare che la giovane età (non è il mio caso: io ho 35 anni suonati) sia per loro un problema e mi fa ancora più arrabbiare, allora, sentirmi chiamare signorina. Perché signorina mi chiami al bar, sull’autobus o per strada. Qui stiamo lavorando. E non ho mai sentito nessuno, nessuno, nemmeno se giovane davvero, essere chiamato signorino. Al più si chiama dottore anche chi dottore non è, nel dubbio.

Torniamo al video. E chiudo.

Alla fine, non ho mica capito di che cosa parlassero davvero. Se quel prefetto stesse trattando con sufficienza le istanze dei cittadini e se quei cittadini stessero civilmente e rispettosamente discutendo di un affare della collettività. Il tutto è stato sommerso dalla canea di chi chiama arrogante quel prefetto (e vabbè, ha esagerato. Ma se avesse solo detto: “La mia collega è prefetto tanto quanto me: per rispetto della sua persona, dell’istituzione che rappresenta, di tutte le donne che lavorano, e anche dello Stato di cui siamo parte, la pregherei di chiamarla ‘prefetto’ esattamente come chiama me”, del dibattito napoletano non si sarebbe proprio sentito niente quassù. E noi ora non ne parleremmo proprio). Si è detto, e con un’insistenza davvero eccessiva, e toni volgari e insulti e urla, che “le istituzioni devono rispettare i cittadini, quello è un leinonsachisonoio”. E non si è detto che il prefetto di Napoli, tipo, per esempio (non lo so, non ho i dati) non ha strumenti per rispondere alle domande sulle discariche che avvelenano la città.

Si è detto che il prefetto ha umiliato il prete. Ma che il prete abbia umiliato me e tante altre, come tanti ci umiliano nei nostri lavori ad alta specializzazione, e che probabilmente insegni a umiliare quelle come me, a perpetuare la confusione tra una formula di cortesia desueta e la cecità di fronte a un ruolo riconosciuto ai maschi ma, sorrisino, un po’ meno alle femmine: questo non si è detto. E che lui non abbia proprio capito il motivo per cui è stato rimproverato, e che da domani ricomincerà a chiamarci signore o signorine a seconda dell’età (peraltro valutata a occhio), anche questo non si dirà.

È stato il solito pretesto, per l’Italia del 2012, per scatenare i troll che gridano sgrammaticati alla fine della politica, al fascismo delle istituzioni (tanto con le parole ci facciamo quello che ci pare, vero?), all’arroganza del potere. Però, alla fine, in questa canea, scatenata (si badi) dai fautori del pretino di periferia, si è perso l’argomento di un dibattito che invece ai napoletani immagino stia giustamente molto a cuore, per andarci leggeri. Ma soprattutto si è persa un’occasione.

Quella di dire, chiaramente e con tutta la nostra serietà, che, finché lavoriamo, non siamo signore. Siamo lavoratrici, di quelle con una formula precisa rintracciabile in poche mosse su un dizionario. E nessuno può manifestare disattenzione per il nostro ruolo. Nemmeno (o tantomeno, a seconda della vostra simpatia per la categoria) un prete.

di Silvia Bencivelli (giornalista scientifica) | @sbencivu
(22 ottobre 2012)

* Parentesi di riflessione da chi lavora nella comunicazione: il prefetto è stato anche poco furbo. Sei un maschio adulto di potere e rappresenti lo Stato italiano nel 2012: dall’altra parte hai un prete anticamorra – io non lo sapevo ma sicuramente lui sì – che sta difendendo i cittadini di un posto intossicato dai rifiuti della malavita organizzata. È ovvio che lui è il buono e tu il cattivo. Hai già perso. Avresti potuto segnare il goal della bandiera difendendo la collega donna e invece così sei sembrato uno che non è capace di trattenere la rabbia. Adesso, almeno per questo, si chiede scusa.
E poi, lasciatelo dire da una che può essere litigiosa il giusto, conviene che tu faccia anche una piccola menzione al fatto che la tua collega è prefetto quanto te sebbene sia donna. Usala, la parola donna. Ci piacerai molto.

** Parentesi di riflessione da chi si sente parte di una minoranza: quando vedo trattare con leggerezza, a voce alta, con sguardi di disprezzo, con un tu deciso unilateralmente per marcare le distanze, i ragazzi africani che incontro sui mezzi pubblici, penso che loro siano veri eroi. Io, avendo a disposizione un corpo di quel tipo, sentendomi trattare di continuo in quel modo, credo che alla decima volta mi alzerei e spaccherei tutto. Per fortuna ho un corpo che non permette di cedere alla rabbia se non con l’indifferenza o con un po’ di male parole.

Non sono una signora, il ‘piucheprefetto’ e il prete


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