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Non sottovalutate le nane bianco-gialle

Creato il 26 marzo 2014 da Media Inaf
Illustrazione artistica di Wezen, supergigante di classe F. Crediti: Sephirohq/Wikicommons

Illustrazione artistica di Wezen, supergigante di classe F. Crediti: Sephirohq/Wikicommons

“Le piccole cose sono di gran lunga le più importanti”, faceva dire Arthur Conan Doyle a Sherlock Holmes in una delle sue avventure. Ogni tanto, però, è importante anche non perdere di vista le cose un po’ più grandi. Alla ricerca di esopianeti abitabili, per esempio, andiamo solitamente in caccia di pianeti rocciosi simili alla Terra nei dintorni di stelle relativamente piccole, simili al Sole. Cerchiamo la vita in posti remoti dell’Universo, e dal momento che nel sistema solare lo schema sembra aver funzionato tutto sommato piuttosto bene, cerchiamo una configurazione simile alla nostra anche altrove.

Così facendo, però, ci perdiamo per strada uno spettro di sistemi planetari che potrebbero a loro volta ospitare la vita: quelli che orbitano attorno a stelle di classe F V, più massicce e più grandi del Sole.

Il motivo principale per cui la comunità scientifica ha snobbato fino a oggi questi pianeti extrasolari è la quantità di radiazioni ultraviolette che ricevono dalle loro stelle, talmente intensa, si pensava, da non permettere lo sviluppo della vita. Eppure una nuova analisi di un team di ricerca capitanato da due scienziati dell’Università del Texas ad Arlington sembra aver cambiato le carte in tavola.

Secondo Manfred Cuntz, professore di fisica presso l’università texana, e la sua PhD Satoko Sato, quando gli scienziati planetari sono alla ricerca di pianeti abitabili farebbero bene a guardare anche nei dintorni delle grandi stelle di classe F, volgarmente dette nane bianco-gialle. “Le stelle di classe F non sono senza speranza”, sostiene Cuntz. “C’è una mancanza di attenzione da parte della comunità scientifica quando si viene a conoscenza di stelle di classe F, e questo vuoto è ciò che la nostra ricerca cerca di colmare. Dalla nostra analisi risulta infatti che (i loro sistemi planetari, ndr) possano effettivamente essere un buon posto per cercare pianeti abitabili”.

I perché sono presto detti: secondo le ricerche di Cuntz e Sato, le nane bianco-gialle hanno una zona abitabile più ampia della media, e le radiazioni ultraviolette che sembravano essere un ostacolo insormontabile potrebbero rivelarsi soltanto uno spauracchio. I ricercatori hanno infatti analizzato i limiti che le intense radiazioni potrebbero porre allo sviluppo e il sostentamento di vita a base di carbonio nelle nane bianco-gialle. Quello che hanno trovato sono stime di danni al DNA poi non così potenti. Il team ha preso in esame un ampio spettro di possibili stelle di classe F nelle varie fasi della loro evoluzione, e in nessuno di questi casi la radiazione ultravioletta sembra porre serie limitazioni alla vita. In alcuni casi le stime di danno erano anzi simili a quelle provocate dal Sole sulla Terra. Certo sulla Terra siamo protetti dalla nostra atmosfera che ci scherma da gran parte delle radiazioni dannose. Ma non è detto, sostengono i ricercatori, che pianeti che orbitano attorno a nane bianco-gialle non possano avere un simile sistema difensivo.

Per capire davvero se un pianeta è abitabile bisognerà sviluppare metodi di analisi delle atmosfere e fornire al più presto studi osservazionali che forniscano dati più precisi rispetto alle (comunque preziose) rilevazioni di Kepler. Intanto, però, questo articolo sembra aggiungere nuove possibilità alle ricerche future (per quanto le nane bianco-gialle rimangano per ora una rarità).

“Il nostro studio è un ulteriore contributo verso l’esplorazione della idoneità esobiologica di stelle più calde e, di conseguenza, più massicce del Sole. Almeno nelle zone esterne delle zone abitabile delle stelle di classe F, le radiazioni UV non devono essere viste come un insormontabile ostacolo per l’esistenza e l’evoluzione della vita” , si legge nell’articolo, pubblicato online, e che vede come coautori Cecilia Maria Guerra Olvera, Dennis Jack e Klaus -Peter Schröder dell’Università di Guanajuato.

Fonte: Media INAF | Scritto da Matteo De Giuli


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