In Italia, per la maggior parte dei lavoratori dipendenti o con contratti atipici, il posto di lavoro non è tanto legato ad articolo 18 o cassa integrazione, quanto alle iniezioni di liquidità mensile operate dai clienti delle aziende per cui lavorano.
In Italia il 95% delle ditte è spesso composto da meno di 10 dipendenti; il gruppo di lavoro, se facesse una gita aziendale, potrebbe stare tutto in una Multipla. A volte in una Smart. Se lavori per una ditta individuale (il 62,5% delle ditte con meno di 10 dipendenti), puoi stare certo che chi lavora a tutti livelli di grandi fabbriche e industrie, aziende di consulenza e strutture pubbliche, di cooperative, di banche, grandi studi professionali o grosse officine, di imprese private nostrane o multinazionali, non ti capisce. Nemmeno gli enti, i sindacati, le associazioni di categoria si preoccupano per te. Eppure considerando dipendenti, contratti atipici e partite IVA, siamo 9,7 milioni di persone. Anche io faccio parte di quella folta schiera per cui il posto di lavoro non è tanto legato ad articolo 18 o cassa integrazione, ma soprattutto alle iniezioni di liquidità mensile operate dai clienti mediante bonifici o ricevute bancarie che portano contante sul conto della ditta per cui lavori. Niente pagamenti da parte dei clienti significa niente stipendio. Niente pagamenti e la ditta chiude.
Tutte le aziende hanno clienti, tutte hanno fornitori. Dai clienti incassi e i fornitori vanno pagati. È lampante che se i clienti smettono di pagare o pagano con notevole ritardo, la ditta non ha di che pagare i propri fornitori e i propri dipendenti e collaboratori. Parlando con titolari o responsabili commerciali di aziende del Made in Italy, dall’abbigliamento alle calzature, dal design industriale ai mobili, dal vino al cibo, attrezzature per palestra o macchine movimento terra, attualmente la prima considerazione che viene fatta è che occorre vendere all’estero, perché oggi in Italia i clienti per prassi non pagano, un po’ ci marciano, ma sempre più spesso hanno difficoltà e chiudono. Questo problema riguarda anche aziende di servizi piccoli o grandi, che non possono sperare di esportare. C’è gente che apre una piccola ditta con due dipendenti per fare pulizie negli uffici o che campa consegnando materiale di cancelleria in studi professionali di medie e grandi dimensioni. Il problema di tutti, il problema di chiunque è incassare.
Per partecipare alle fiere di settore che si tengono, poniamo, a gennaio, il ciclo inizia 3 o 4 mesi prima, con la creazione di una bella collezione per esempio di cinture, portafogli, portachiavi da uomo e da donna, da produrre in Italia, realizzata con materiali ricercati. La collezione costituita di 50/70 novità da presentare il primo mese dell’anno, si studia e realizza a partire dal settembre precedente; i materiali, le prove e la realizzazione di 2 o 3 repliche di campionari spesso vanno pagati subito. Per prendere ordini e trovare clienti la ditta cerca di partecipare ad una o più fiere del settore, anche queste da pagare con anticipo. Terminate le fiere si cerca di proseguire la campagna vendite utilizzando studi di rappresentanza che ospiteranno i 2 campionari che la casa madre mette a disposizione. Gli agenti sono pagati a provvigione non sull’ordinato ma sull’incassato, e questa è l’unica uscita che si effettua a pagamento avvenuto.
Se ne deduce che di articoli di questo campionario per permettere alla ditta di non perderci, se ne devono vendere almeno 500.000 euro, (cioè 10.000 pezzi assortiti in diversi modelli, taglie, colori). Di questa cifra, 200.000 euro servono per coprire le spese fisse, più altri 200/250.000 euro per coprire le spese di produzione. Alla ditta restano 50/100.000 euro che è un margine molto basso, perché ci deve campare la famiglia dei titolari, pagare le tasse (sul fatturato, non sull’incassato) e far fronte agli imprevisti, cioè mancato ritiro e mancati pagamenti. Questo è il caso migliore, perché prendere ordini per 500.000 euro di cinture, portafogli e portachiavi oggi non è facile. E soprattutto, dove trova la ditta 250.000 euro per produrre (pagare i propri fornitori di materiali e prodotti finiti) e consegnare? Chi li anticipa? Ed è qui che ci si rivolge alle banche perché per quanto la ditta abbia ponderato l’investimento e abbia denaro da parte, se i titolari non hanno ereditato l’azienda da un genitore, non avranno mai una liquidità di questo tipo. L’ipotetica ditta che procede dando lavoro a terzisti, potrà anche concordare dei pagamenti lunghi e dilazionati, ma resta il fatto che se produce in aprile, maggio e giugno, spedisce in luglio, (agosto in Italia non fa parte del calendario, almeno fino a prova contraria) settembre e ottobre, avrà dei pagamenti ai propri fornitori in scadenza prima ancora di aver finito di consegnare.
E qui casca l’asino. Pensate che i clienti paghino appena ricevuta la merce? Certo che no: un tempo lo standard di pagamento era a 60 giorni fine mese, vale a dire che si contano due mesi non dalla data della fattura di consegna, ma dalla fine del mese in cui la merce è stata ricevuta: a fine novembre per la merce ricevuta in settembre e a fine dicembre per la merce ricevuta ad ottobre. Oggi è considerato troppo breve. Ed essendo passati 12 o addirittura 15 mesi dal momento in cui lo staff creativo inizia a studiare la collezione, l’azienda auspica una certa puntualità nei pagamenti: sono usciti già più di 400.000 euro e praticamente non ne ha ancora incassato nessuno. L’unica è pagare le aziende fornitrici di beni e servizi solo dopo aver incassato dai propri clienti, innescando un meccanismo a ritroso per il quale altre aziende a loro volta smetteranno di pagare altri fornitori che hanno lavorato 6/8 mesi prima per loro.
Visto che il problema della mancanza di denaro è assodato per ogni genere di piccola e media impresa, qualcuno ha pensato di guadagnare trovando una soluzione. Esiste un’azienda torinese che funziona da banca di crediti virtuali, garantendo il buon esito, sostanzialmente, di baratti. Chiunque abbia una partita IVA può aprire una sorta di conto corrente in Virtual-euro che può spendere solo nel circuito. Tutto è uguale al mercato reale: ti serve una fornitura di carta per la stampante? Chiedi preventivi agli associati e scegli quello che ti soddisfa di più. Chi vende emette una fattura reale su cui pagherà tasse e anticiperà l’IVA, chi compra riceve la merce realmente, ma il pagamento avviene da un conto aziendale in Virtual-euro su di un altro conto sempre in Virtual-euro. Non tutte le aziende però trovano le forniture o i clienti interessanti. L’azienda che stiamo utilizzando come esempio, che vende ai negozi cinture, portafogli e portachiavi di qualità, farà fatica a sfruttare questo circuito. Anzitutto le sue spese fisse son date da personale, affitti e utenze: per ora né aziende di telefonia, né proprietari immobiliari, né soprattutto i dipendenti possono essere pagati, se non in denaro vero. Quanto alla produzione e prototipia, è difficile trovare in un consorzio di aziende eterogeneo ma dai prodotti e servizi non specificamente specializzati, i materiali più ricercati, i dettagli metallici o decori per cinture e portachiavi che il designer aveva progettato. In più, chi mai sarebbe interessato ad acquistare quantità di un prodotto finito come questo?
Firma qui che ti conviene
Ho incontrato per lavoro il rappresentante della ditta dei Virtual-euro di cui sopra, che si è ispirata ad una decennale attività svizzera. Voleva convincermi che questa è un’ottima soluzione. Io sono scettica: lavoro per ricevere uno stipendio in denaro vero, perché è denaro vero che mi chiedono quando faccio la spesa, faccio benzina, per qualsiasi cosa mi viene chiesto di pagare con carta, bancomat o contante. Nulla di virtuale. E infatti, l’iscrizione al circuito/consorzio si paga in euro reali: costa, in base ai pacchetti, 1.200 euro, oppure 2.400 o addirittura 3.600. In cambio il nominativo abbinato a quella partita IVA si vede accreditato il corrispettivo dell’iscrizione in Virtual-euro. Ovvio che se gestisci un bar e hai bisogno di tovaglioli personalizzati, magari li trovi, ma chi rimpingua il tuo conto? Quanti si rivolgeranno a te in questo circuito? Forse a me risulta strano perché ritengo che sia indispensabile la qualità e la cura nel prodotto e nel servizio che cerco, soprattutto professionalmente. Nella moda è così, nel design, nella comunicazione anche. Ma quanti, per esempio oramai senza liquidità e comunque con la necessità di stampare biglietti da visita o manifesti per i saldi, penseranno che è meglio farle queste cose e non pagarle in contante, piuttosto che rinunciare?
Ma se è vero che i consumi sono ridotti, che i negozi chiudono (ci credo, se i clienti finali, cioè tutti noi, non prendono lo stipendio o spendono di più in cibo e benzina e tutto il resto, o se sei proprietario di una piccola o media impresa e tuoi clienti non ti pagano e le banche non ti danno credito, non vai certo a fare shopping) ci sono realtà che non conoscono crisi, dove il contante continua ad entrare. Esistono aziende che hanno come compito il conteggio di banconote e monete. Sì, i loro 10/12 dipendenti fanno turni e passano le loro 8 ore di lavoro a contare ciascuno le banconote e le monete degli incassi di centri commerciali, multisale, catene di magazzini di elettrodomestici, hobbistica e sport, caselli autostradali e macchinette dei parcheggi, parchi di divertimento, pagamenti delle macchinette di Ausl e prestazioni ospedaliere.
Chiaro che il dato è parziale. Parliamo di grandi strutture e quelli che chiudono sono i negozi del centro; parliamo di contante e non sappiamo se è diminuito l’utilizzo di carte e bancomat dopo la sbornia pre-crisi. In Italia la maggior parte delle spese viene infatti fatta ancora pagando cash. (nel 2011 solo il 42% utilizzava carte e bancomat, mentre nel nord Europa, anche per evitare la micro-crimalità, li si usa anche per piccole spese fino ad arrivare alla copertura del 90% delle uscite pecuniarie senza banconote).
Il contante c’è costantemente per la spesa, il cinema, gli acquisti nella grande distribuzione, l’autostrada, i parcheggi e, ovviamente, per curarsi. Una volta contato arriva in banca. E poi dove va a finire? Perché diventa così difficile accedere al credito?