Ve lo giuro: questo non sarà il solito post vetero-femminista sulle gioie della mancata maternità.
Si tratta, più che altro, di alcune riflessioni che mi frullano nella testa da qualche tempo e che si fanno particolarmente irrequiete ogni volta che rischio di perdere il mio lavoro a causa delle riforme ("buone scuole", "buone pratiche" et similia) realizzate dal governo incompetente di turno.
Da qualche anno, tra molti patemi (causati dal precariato scolastico e dalle famigerate nomine d'inizio anno) e innumerevoli soddisfazioni, insegno lettere in istituti superiori, a ragazzi la cui fascia d'età è compresa tra i 15 e i 19 anni.
E' un lavoro che impegna il cuore più della mente, che sporca le mani (di gesso, lacrime, inchiostro), che "costringe" alla creatività e all'empatia. Un insegnante che non sappia inventarsi chissà cosa, pur di trasmettere entusiasmo e desiderio di conoscenza - un insegnante che non sappia e non voglia piangere e ridere coi propri alunni... difficilmente sarà in grado di lasciare un segno indelebile.
In verità, ci sono poche altre cose, nella vita, che io ami quanto il mio lavoro - e per le quali provi la stessa soddisfazione. Perciò, quando conoscenti o emeriti sconosciuti mi domandano: «Che mestiere fai?», rispondo sempre con orgoglio: «Insegno!».
E' a questo punto che arriva sempre lei, la Domanda delle Domande: «Dove? All'asilo? Alle elementari?»
Premetto che ho massima stima dei colleghi che insegnano alla scuola materna ed elementare; non è questo il punto. Il punto è: se io fossi un uomo, mi rivolgerebbero la stessa domanda? La risposta è scontata: no, non lo farebbero.
Per quale motivo, invece, nel 2015, in un Paese come il nostro (che pretende di essere all'avanguardia in materia di pari opportunità), il sentire comune ancora associa l'immagine di una donna (per giunta giovane!) sempre e solo alla cura dei bambini e ad attività prossime al maternage? Per quale ragione dovrei preferire avere a che fare con bambini molto piccoli (e non ancora in preda a detestabili e incontenibili sussulti ormonali) piuttosto che insegnare la poesia di Dante, Montale, Pavese? Perché a nessuno dei miei colleghi maschi, docenti di materie tecniche, di matematica, lettere o filosofia, viene mai chiesto (con quell'odioso sorriso accondiscendente) se siano maestri d'asilo?
Direte che sono una rompiscatole. Che mi piace prendere tutto per le punte. Sarà. Fatto sta che, alla Domanda, rispondo sempre con serietà e decisione, pregustando le espressioni facciali e le esclamazioni imbarazzate del mio interlocutore o interlocutrice (i pregiudizi sessuali non risparmiano nessuno).
«No. Insegno alle superiori. Italiano e storia.»
«Ah. Alle superiori? ... però!»
Però che cosa? Che cos'è che sconvolge l'italiota medio, quando si parla di donne e di cultura in un unico contesto? Ci divertiamo tanto a deridere il povero Camillo Langone, ma il sessismo è ben più diffuso e radicato di quanto crediamo.
E i pregiudizi sono diffusi anche nella scuola stessa.
Un paio di anni fa, ho insegnato in un istituto professionale, sul corso meccanici - che è, notoriamente, un corso tutto maschile, che mette a dura prova le capacità emotive e caratteriali di un docente. Un pomeriggio, mi recai presso l'aula magna della mia scuola per partecipare ad una riunione che riguardava sia mio istituto sia l'istituto tecnico della stessa città. Indossavo un abito rosso lungo fino ai piedi e avevo tirato su i capelli. Un collega dell'istituto tecnico mi vide passare e, credendo forse di rivolgermi una gentilezza, mi disse: «Ah, tu che sei così elegante... Di sicuro insegni sul corso moda [interamente femminile]».
«Veramente no» gli risposi, ostentando una certa sfacciataggine e godendomela un mondo. «Insegno sui meccanici e sono coordinatrice di una classe di trentaquattro maschi, dove mi diverto come una pazza. Come vedi, l'abito non fa sempre il monaco.»
L'ho lasciato così, a bocca semiaperta, e sono andata a sedermi. Rigorosamente in ultima fila, come avrebbero fatto quegli scapestrati dei miei alunni...