Ciao a tutti! Sono Matteo Bortolotti, e odio gli zombi.
Ebbene sì, li odio e li amo come diceva quel poeta latino che va tanto di moda e potrebbe citarvi Fabio Volo in un suo romanzo (per inciso, quando scrivo ‘suo romanzo’ intendo che il romanzo è firmato da lui). Zombi, dicevamo.
Correva l’anno 1968 dopo la nascita di Cristo e George A. Romero, che aveva una piccola casa di produzione pubblicitaria, si mise in testa con alcuni amici e colleghi di girare un film. Scelsero un film dell’orrore, perché a quel tempo pare che tirassero. Gli adolescenti ne andavano matti, mica come oggi. All’inizio il film doveva costare 6.000 bei dollaroni. Alla fine ne costò 114.000.
La storia finisce bene, perché incasso circa 18.000.000 di svanziche. And counting. Ma…
Ma c’è sempre un ma! Voi tutti avrete sentito parlare almeno una volta de ‘La notte dei morti viventi’, avrete visto un seguito ufficiale (Romero ha firmato una tetralogia, che poi in realtà è composta di un universo zombesco di ben 6 film che non riesco a vedere senza assistenza medica) oppure uno dei vari remake, reboot e re-qualcosa…
Ebbene, non dovevate vederlo. Non così almeno.
Per un errore clamoroso nei titoli di testa, dopo che il titolo venne cambiato (quello originale era ‘La notte dei mangiatori di carne’) si scordarono di mettere l’avviso di Copyright sulla pellicola. Il che rese il film… open source! Libero da ogni vincolo distributivo.
BAM! La storia della produzione di questo film merita ben più di un articolo su questo blog, ben più di un capitolo in un saggio di sociologia. Gli zombi Romeriani hanno raccontato a una generazione la fine dell’illusione, la sveglia dal grande sogno americano, e non solo. Gli zombi sono lenti, stupidi e inesorabili. Sono consumatori passivi, affamati, non li puoi fermare per un unico motivo: sono tanti, sono troppi, sono dannatamente ‘di più’.
Qualsiasi persona tra voi si è sentito in svantaggio rispetto a gente del genere almeno una volta nella vita. Li abbiamo incontrati più volte. Sono quelli a cui non puoi spiegare, quelli a cui non puoi sfuggire senza essere condannato e additato come un mostro. Quelli che ti costringono a reagire, a combattere, a diventare un mostro peggiore di loro.
L’ignoranza, l’arroganza, l’ambizione. Spettri fluttuanti dietro la metafora di un non-morto mangione. E sapete che c’è? Anche se ci fermassimo prima, anche se non ci sforzassimo di interpretare questa grande figura allegorica del novecento (che ci stiamo tuttora trascinando dietro: The Walking Dead e i lavori di Brooks su tutti) saremmo comunque costretti ad ammettere una cosa. È un soggetto dannatamente fico.
Questo documentario racconta la nascita del film, ci fa una panoramica soddisfacente del contesto storico (il Vietnam, la Guerra Fredda, l’America redneck) e ci racconta perché alla fine non possiamo soltanto ‘odiare’ quelle maledette salme ambulanti.
È il mio sogno ricorrente, Doc. Da quando ero un piccolo cacciatore di mostri – da allora, – sogno di resistere a un’apocalisse zombi. E adesso che sono un cacciatore di mostri semi-adulto li vedo anche quando sono sveglio. Sono attorno a me, mi dicono che non posso lottare per i miei sogni, mi dicono che in questa società c’è spazio per chi consuma e basta, per chi produce solo quello che mangiano tutti, per chi s’illude che il mercato gli sta dando un’alternativa. E non è così.
Ecco perché vi consiglio di vedervi questo documentario e – GRANDE COCOMERO! – è già HALLOWEEN! Guardatevi anche il film. È gratis, grazie all’incuria (puntuale) della Walter Reade Organization.
Ve lo allego qui, fra il nero e il mistero.
Ah, c’è un’altra cosa: gli zombi teneteli a mente, perché a Natale dovrò risolvere #unbelmistero zombesco nel primo racconto della nuova serie MENSILE dedicata allo scrittore in giacca verde. Avete capito bene: un racconto al mese, da leggere dove volete e quando volete. Avrò bisogno di voi, per trovare il bandolo del gomitolo. Di voi, e del gatto che ho nella testa.
Il mistero della loggia perduta non era nemmeno l’inizio. Era un assaggio. Un antipasto. Spero solo di non diventare il primo piatto del pranzo di Natale.
Quello sì, che sarebbe un delitto.