Norma, il capolavoro indiscusso di Vincenzo Bellini, fu rappresentata la prima volta nel 1831 al Teatro alla Scala di Milano e, come altri titoli (tra i più clamorosi Traviata e Carmen), fu un fiasco clamoroso. Oggi è impossibile spiegarsi le ragioni di tanta iniziale ostilità per i capisaldi del più grande e intoccabile repertorio. Sta di fatto che, per fortuna, queste opere hanno superato la prima prova e sono giunte fino a noi, sia pure attraverso le convenzioni del gusto corrente.
Sarà per questo che alcuni registi decidono di disattendere il libretto diFelice Romani e proporre qualcosa d'altro. Dunque va detto subito, al riguardo, che l'allestimento dell'Opera di Stoccarda di Jossi Wieler eSergio Morabito mi è sembrato uno sconfortante nonsense: la sensazione ieri sera al Teatro Massimo di Palermo è stata quella che si prova in alcuni locali notturni dove l'audio in streaming propone dei brani, mentre sugli schermi passano immagini del tutto diverse, quando non contrapposte. Questo postmoderno senso di estraniazione è destabilizzante; tanto più che, se in certi momenti lo spettacolo (ambientato in uno spazio a metà tra una chiesa e un tribunale con angolo privato) sembra avanti da sé con una certa coerenza (con l'aiuto delle scene di Anna Viebrock e dalle luci diMarco Fleck, senz'altro funzionali), in più di un passo il grottesco prende il sopravvento e bisogna chiudere gli occhi per recuperare lo spirito di Norma. La sorpresa che certi produttori vorrebbero suscitare con simili iniziative non equivale in nessun caso al sobbalzo di una rivelazione improvvisa nel più tradizionale (e noioso) allestimento: si esaurisce e stanca subito.
La buona notizia, però, è che l'ascolto di quest'edizione del capolavoro di Bellini presenta alcuni punti forti. La protagonista, per esempio, è l'ungherese Csilla Boross, donna di spettacolo disinvolta e senz'altro a suo agio nel ruolo, che, nonostante qualche scelta stilistica a mio avviso meno piacevole e convincente, ha dato fondo a tutta una serie di sfumature, rendendo omaggio a uno dei più importanti ruoli sopranili della storia dell'opera. Rôle-titre di forte temperamento e timbro non pastoso, e però senz'altro "nobile", duetta in modo magnifico tanto con l'ottima Adalgisa diAnnalisa Stroppa - la cui specifica qualità vocale in una prima fase mi era sembrata poco adatta, ma via via si addolcisce nel corso dell'opera - quanto con il Pollione di Aquiles Machado. Sul tenore venezuelano nutro, a dire il vero, qualche riserva in più per dei suoni strozzati e un protagonismo fuori luogo (senz'altro parte dell'alieno scriptregistico), che accentuano i meriti molto dubbi di un personaggio già insulso, in puro stile marionettistico. Va detto comunque che nei numeri per i quali la partitura prevede brani d'insieme, il terzetto funziona e addirittura trascina il pubblico nel suo vortice di bellezza sonora e di emozioni, specie nel primo atto.
In un tale quadro, l'Oroveso di Marco Spotti, con la sua fisicità e il suo timbro, sembra voler fungere da ponte tra la musica e la regia, anche se le battute poco numerose nelle quali è protagonista non rendono forse giustizia alle potenzialità della sua voce che mi sembra meriti occasioni migliori (anche prossemiche) per esser apprezzata. Su questa linea mi sembra che possano seguire la Clotilde di Patrizia Gentile e il Flavio di Francesco Parrino. Per quanto attiene alla direzione, va detto che si apprezza la scelta diWill Humburg di guidare con energeia l'Orchestra del Teatro Massimo, sottolineando infine il fuoco insito nella musica di Bellini, anche a discapito della proverbiale e abusata "lentezza". Nonostante qualche passaggio più sbrigativo, o meno riuscito, mi sembra che la musica di Vincenzo Bellini goda qui di una maggiore incisività (che, ho visto, è stata apprezzata in loggione anche tra coloro che non avevano mai sentito l'opera per intero). Anche il coro guidato daPietro Monti ha profuso grandi energie, ottenendo effetti dinamici e piacevoli, in una tessitura sonora d'insieme perfettamente riuscita.