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Norman

Da Pupidizuccaro

Norman ZarconeDiventammo amici giorno dopo giorno, lezione dopo lezione sino a quando preparammo quel seminario su Kiarostami per storia dell’estetica. Eravamo sempre assieme, io, Vitaliano e Norman. Norman che m’accompagnava al centro stampa con sotto braccio la copia della metafisica d’Aristotele che gli aveva regalato suo padre per il primo Natale da universitario.
Ci siamo laureati lo stesso giorno, quel 20 dicembre del 2004, 110 e lode tutti e due, la vita sembrava splendida. Norman era fidanzato e aveva provato a farmi zitare pure a me. Poi conobbi la mia ex e lui era felice. Dovevamo pure uscire in quattro ma poi alla specialistica abbiamo imboccato due percorsi paralleli: io filosofia estetica, lui filosofia del linguaggio. La materia a cui aveva deciso di dedicare sudore, fatica e tutta la sua voglia d’andare sempre oltre.
Era capace di spaziare, l’ultima volta che ci siamo visti mancavano pochi giorni alla mia partenza per l’Uruguay, mi regalò un paio di libri di filosofia e m’accompagnò sino alla sede del master in giornalismo. Vai e spacca il mondo, mi disse. E io risposi con quello che era il nostro saluto: va tagghiati sti basette! E lui rimpallava sulla barba riccia e nera che in quegli anni m’ero fatto crescere.
I professori li avevamo affrontati insieme, anche le materie più pesanti avevamo sostenuto assieme, quella filosofia teoretica che sembrava uno scoglio insormontabile e filosofia morale che prevedeva di masticare per bene Il Capitale di Marx…

Se n’è andato il giorno che lavoravo come aiuto cuoco in un ristorante per poter restare qui, a Milano, a cercar di dar senso ai miei studi. Era uno dei nostri motti quel che aveva scritto Aristotele: il bisogno di filosofare inizia quando son soddisfatti tutti gli altri. Io lavavo un piatto dopo l’altro, per nove ore e il suo corpo era già stato rimosso da dove aveva deciso di porre fine alla vita e al suo pensiero.

Sette piani, un volo di sette piani quanto dura? Considerando i settanta chili di Norman almeno una ventina di secondi, tutto il tempo per dare un lungo addio a questa vita e all’orribile palazzone rosa salmone che ci aveva visto crescere e andare ognuno per la propria strada. Sette piani, come quelli di quel fantastico racconto di Dino Buzzati.
Hai deciso d’andartene, ci hai lasciati tutti qui a chiederci che senso abbia continuare a far gli equilibristi sul labbro dell’abisso. Dottorandi, docenti precari, aspiranti giornalisti. Inseguiamo chimere, tutti qui, come mosche che escono da un pezzo di carne lasciata al sole. Ora si prodigano a intestarti aule, il dottorato alla memoria, una borsa di studio.

Hai lasciato un segno, ce l’hai fatta, vecchio mio. Ma avevi tutta una vita da immaginare: come faccio a perdonarti?


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