Me ne stavo sdraiato, soddisfatto di toccare con la punta di un dito la punta di un seno, e avevo quella sapienza che cade come la pioggia, perché capivo finalmente che l’amore non è un dono ma un voto. Soltanto i coraggiosi possono conservarlo più di un breve momento. [...] All’inizio era stata una specie di circo d’avanguardia: interviste con tipi barbuti che fumavano marijuana da ventidue anni, confessioni di ex galeotti sull’omosessualità nelle prigioni, una mia conferenza su Picasso e la sua pistola (dove definivo Picasso il maestro di cerimonie dell’impulso cannibalesco dell’Europa moderna, la più difficile conferenza nella storia della televisione), una chiacchierata con una ragazza squillo, con il capo di una banda di giovinastri in motocicletta, con il capo di una banda di Harlem, con una massaia che aveva perso ottanta chili in un anno, con un prete spretato, con una mancata suicida (una ragazza che aveva tre cicatrici sul polso). All’inizio, le garantii, avevo avuto un’idea, volevo aprire una strada nella psicanalisi e nei problemi dell’assistenza sociale.
«Sei davvero in gamba» disse. E mi strappò un pezzetto di pelle dall’orecchio con un morso così aguzzo e preciso che era come se fossi stato punto da uno stuzzicadenti. «Ricordi» disse, ponendomi sull’orecchio a mo’ di balsamo una goccia di saliva «la recensione che scrisse Mac N. Ryan? “È un baccanale di cattivo gusto che infrange tutti i canoni di dignità sinora rispettati dalla televisione.”» Rise. «Sai che una volta sono uscita con Mac N. Ryan?»
«E ha infranto qualche canone?»
«Oh, avrebbe preferito non lasciarmi senza amore, ma se avessi avuto qualche malattia? E così gli fissi: “Be’, tu capisci, tesoro, la sifilide è una cosa abbastanza normale”. E questo ottenne il suo piccolo risultato. Dovetti caricarlo su un taxi.»
Risi. Quel tanto di sordamente doloroso che c’era stato nella mia prima reazione era scomparso. Povero Mac N. Ryan. Salvo questa rispettabile eccezione, i critici televisivi avevano ignorato il programma. Non facevamo che perdere finanziatori e trovarne di peggiori, la FCC ci telefonava tutti i giorni, il produttore (lo avete conosciuto) tirava avanti a tranquillanti, e io non ero abbastanza energico. Incominciammo a ospitare liberi professionisti,funzionari, professori, commercialisti, discutemmo di libri e di questioni attuali, ci riducemmo al niente ma acquistammo popolarità.
Le raccontai qualcosa di tutto questo e tentai anche di darle un’idea del mio passato (volevo davvero che sapesse qualcosa di me). Le parlai della mia carriera accademica. Ne ero orgoglioso perché, una volta abbandonata la politica, mi ero iscritto all’università nel Middle West e nel giro di cinque anni mi ero laureato ed ero diventato prima assistente e poi professore incaricato all’università. E due anni dopo, rientrato a New York, avevo avuto una cattedra. Naturalmente tutte queste cose non vennero fuori con ordine, ma un episodietto qua e un aneddoto là, i nostri umori si lasciavano trascinare con un’indolenza di barche nell’ondeggiare di un porto, scivolando lungo la spina dorsale di ogni onda.
«Mangiamo» disse lei alla fine, e scese dal letto per cucinare due piccole bistecche, spaghetti e uova strapazzate. Cenammo; mi gettai sul cibo con avidità, mi ero scordato della fame che avevo, e alla fine, al caffè e alle sigarette, sembrò che fosse venuto il suo turno di parlare. Seduto a tavola, lei la sua veste da camera color carne avvolta intorno al corpo (mentre a me era stata offerta una vestaglia che doveva essere appartenuta a Shago martin), ascoltavo Cherry parlare di sé. Era stata allevata dal fratellastro e dalla sorellastra. Questo lo sapevo già. Il fratellastro aveva diciott’anni quando i genitori di Cherry erano rimasti uccisi in un incidente d’auto, la sorella maggiore sedici, lei quattro e la sorella minore uno. Il fratello era molto ammirato dai vicini perché faceva contemporaneamente due lavori diversi. Lavorava duro e teneva pulita la famiglia.
«C’era solo un piccolo inconveniente» disse Cherry «se la faceva con la sorelal tutte le notti.». Scosse il capo. «Quando tornavo da scuola mi sembrava di sentire mio padre e mia madre che mi dicevano: “Di’ a tuo fratello di farla finita con quelle stupidaggini”. Poi, quando avevo otto o dieci anni, scoprii che in paese la gente sapeva benissimo quel che succedeva a casa nostra, ma che questo non sembrava danneggiare la nostra piccola solida rispettabilità. Io giocavo nei giardini delle altre bambine e loro ogni tanto venivano a giocare nel mio. E mio fratello si stava facendo una buona posizione. Non aveva molta simpatia per me e per la sorellina, anzi in un certo senso gli eravamo antipatiche, ma sapeva quale impressione poteva fare a una comunità di seicento bigotti l’assumersi a diciotto anni il peso di una famiglia. Ragionava proprio così. Anche prima di quell’età, aveva già grosse mascelle e un sigaro infilato tra i denti»
«Cosa fa adesso?»
«Lo sceriffo. L’ultima volta che ho avuto sue notizie era candidato al parlamento. Ho avuto la tentazione di mandargli una mia foto con Shago»
da “Un sogno americano” di Norman Mailer, traduzione di Ettore Capriolo,
1965, An American dream, Arnoldo Mondadori Editore, 1966.