La ‘povna e la letteratura giapponese non si sono mai frequentate troppo; così – pur avendo letto (nei termini di un assaggio a botta: un Kawabata, un Mishima, uno Yoshimoto, un Kenzaburo Oe, un Soseki) un po’ di questo e un po’ di quello – lei ha sempre mantenuto verso le pagine made in sol levante una giusta e volontaria distanza.
Sapeva però che lui le mancava, da tanto e, sul crinale dello scollettamento d’anno, si è lasciata convincere da Norwegian Wood. Il risultato è una promozione tanto ovvia quanto con riserva, per una serie di motivi che – prima di ritornare sui terreni più stabili del suo amato Wilkie Collins – la ‘povna prova a riassumere più o meno fedelmente qui.
Romanzo di (de)formazione fin dalle prime pagine, Norwegian Wood rivela da subito i suoi modelli: Holden Caufield e il grande Gatsby, vale a dire, la riscrittura (del novecento americano di una Bildung (europea e ottocentesca) che parte da Dickens (Salinger), ma non può che ripetere (Fitzgerald) il pessimismo sapido dell’Educazione sentimentale di Flaubert. La storia di Toru Watanabe si muove tra questi numi tutelari espliciti, oscillando contantemente tra la paralisi e il movimento, la volontà di crescere e la tentazione recessiva della morte e del passato. Motore (spesso molto mobile), l’incontro con quattro personaggi femminili diversamente forti, costruiti tutti secondo precisi schemi intertestuali (questa volta quasi solo dickensiani). Si sovrappongono così, nella vita e nei sogni sentimentali di Watanabe, Dora, la moglie bambina del giovane David Copperfield, sotto le spoglie delle crepuscolare Naoko; Midori, nelle vesti di Agnes Wickfield, l’amica e tutrice di Naoko, Reiko, che interpreta una ingentilita Rosa Dartle e infine la povera “little Emily” (sedotta e perduta dal perfido Steerforth) che rivive in Hatsumi. Non manca del resto la rivisitazione dello stesso Steerforth, del quale è calco dichiarato ed esplicito l’unico amico ricordato del protagonista: Nagasawa) In questo modo, il dialogo intertestuale – che resta la cifra specifica del romanzo (quasi a voler dire, e qui la banalità è dietro l’angolo, che parlare di amore e sentimenti all’epoca del postmoderno si può fare solo a colpi di allusioni e citazioni) – si affianca a un racconto che, pur nel flashback iniziale che dà inizio alla vicenda, è tutto appiattito sul presente e, grazie anche alla colonna sonora costante, procede (così come da primo titolo italiano) come un Tokio Blues. In mezzo, momenti di grande invenzione stilistica si affiancano a intermezzi assai più fiacchi (complice anche – e non serve sapere il giapponese per capirlo – una traduzione non eccezionale). Perché quella (almeno per la ‘povna) che non si riesce mai a scrollare del tutto di dosso è una definitiva sensazione di freddezza, come se ci si trovasse di fronte alla costruzione, in corso d’opera, di un abile teorema letterario. Perfetto in molte sue parti, ma che, nonostante tutto (o forse proprio per questo), scricchiola come un congegno (basti pensare al capitolo centrale della visita alla casa di cura di Naoko, nel quale l’allusione evidente alla Montagna incantata che fa da sottotesto viene rovinata da una serie di didascalie esplicite che non lasciano al lettore il gusto di godersi in santa solitudine la sua propria agnizione letteraria).
Quello che resta, una volta chiuso il libro, è dunque una sensazione esplicita di perturbante, la stessa che prova di fronte alla bambola meccanica Olimpia (splendida, ma irrimediabilmente rigida), il Nathanael hoffmaniano. E anche il dubbio che, per eccesso di showing off, Murakami abbia tradito, quasi consapevolmente, una bellissima possibilità. Come se l’autore (che del resto arricchisce il libro di una serie infinita di paratesti, prefazioni e post scripta) avesse voluto (di)mostrare al lettore la sua competenza sulla letteratura occidentale (e soprattutto anglo-americana), tutta quanta. Operazione riuscita, non c’è dubbio. Resta da chiedersi dove sia la trama: un’opportunità non realizzata che (del resto è anche la tesi forte del romanzo) chi lo sa se tornerà.
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