Sono contento di non aver saputo che Norwegian Wood è anche il titolo di una canzone dei Beatles finchè non ho preso in mano il libro di Murakami. Ammetto che è una colpa non da poco, ma posso dire con una certa sicurezza che si sarebbe generato uno spiacevolissimo cortocircuito per almeno due motivi.
Il primo è che avrei inevitabilmente proiettato i ricordi e le impressioni associati a quella canzone sulla storia, contaminando le atmosfere che ci avrei trovato.
Il secondo è che avrei dovuto dividere il ricordo di quel nome tra due oggetti, rischiando di sbiadirli entrambi. Ma potrei aggiungere: ora succederà l’opposto e Norwegian Wood significherà comunque entrambe le cose. Pazienza. C’è un’unica soluzione: non ascoltare mai quel brano. Ma questa è un’altra storia.
Norwegian Wood è una storia di sesso, morte, amore, amicizia, responsabilità: l’uno si confonde con l’altra, nulla ha confini netti e ogni cosa trova il suo posto – ogni volta diverso – nel protagonista, Watanabe Toru, e in ciascuno dei personaggi che lo circondano. C’è Naoko, la ragazza che ama – ma lo capisce solo più tardi – da quando andavano a scuola insieme, che adesso segue un percorso di riabilitazione in un istituto di quasi igiene mentale, per malati non così malati da aver bisogno di una clinica. C’è Reiko, la sua compagna di stanza che le funge anche da sorella maggiore, da guida, per aiutarla a cercare la radice dei suoi problemi. Infine c’è Midori, presenza e assenza intrigante, lunatica e sempre troppo sincera, ma tutto ciò ancora non basta per avere le attenzioni di Watanabe al 100%.
Come ammette lo stesso protagonista, è la morte di qualcuno che lo lega stretto agli altri. Che spinge i rapporti sempre oltre un limite che di volta in volta viene stabilito, ma poi scavalcato con la stessa sicurezza e convinzione. La particolarità di questo romanzo “d’amore ma non troppo sentimentale”, come sostiene l’autore, è questa: ciò che potrebbe sembrare trasgressione fine a se stessa, erotismo spicciolo o melodramma scadente è trattato con rispetto e profondità, come tutti dovremmo fare quotidianamente. Affrontare cioè le paure che ci attanagliano o le esperienze che ci imbarazzano; attraversare i momenti di sofferenza che sicuramente ci capiteranno e portarli sempre con noi, per capire l’insegnamento che possiamo trarne.
La sofferenza che Watanabe deve sopportare è parecchia e ricavarne una lezione di vita è più difficile del previsto, per lui che sembrava gestire la sua esistenza in modo quasi automatico e fin troppo riflessivo, ma questo avvicina lui e una parte della cultura dei sentimenti giapponese, comunque ibrida, alla nostra esperienza di persone comuni, alle prese con drammi universali.
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