Tenevo dieci anni la prima volta che ho sentito parlare dell’Uomo-Purpu. Quello sciamannato di Alberico Senzarazzu fu, a nominarlo, una sera che lui e mio padre tornavano da una pesca che gli aveva fatto buttare il sangue inutilmente.Colla sua Simca tutta scasciàta zio Tonino ci aveva accompagnato al mare per farci vedere le lampare che rientravano in porto, ma quando arrivammo là gli uomini già sulla banchina stavano, a passarsi di mano in mano le cassette semivuote: qualche calamaro, una decina di vópe e un pugno di gamberetti, altro non c’era, là dentro, e dalle facce dei pescatori si capiva che non era aria.Quando ci vide venirgli incontro tutti sorridenti, a me e mio fratello piccolo, Alberico si girò verso papà e agitando quel suo braccio mùzzo sputò a terra il mozzicone di Nazionale senza filtro, che teneva sempre appeso sulle labbra, per dire amaro amaro «Magari il minore di ‘sti due muccùsi era stato meglio se ce lo regalavamo all’Uomo-Purpu, forse accussì qualche chilo di pesce in più l’erùmu trovato!».Mio padre teneva un piede sullo scafo e un altro sul cemento. Lasciò dove stava per andare a prenderlo per il collo.«Alberi’», ci disse con la voce rraggiàta, stringendo come se lo voleva soffocare, «non ti far venire più idee simili che io a te ‘sta capa te la stacco!».Libero dalla presa, l’altro prima lo smicciò di traverso, poi scoppiò a ridere col risucchio, all’uso suo, dicendo che non si doveva certo preoccupare perché lui solo coglionandolo stava.Il braccio, Alberico, in paese sapevano tutti che l’aveva perso per colpa del tritolo: era stato un pescatore di frodo parecchio famoso ai tempi suoi e al porto parecchi lo tenevano a modello, ma l’arte se l’era giocata per via di qualche cazzata colla malavita e mo’ gli conveniva starsene tranquillo e lavorare appresso ad altri. Con una morra di figli sparsi per la provincia c’aveva da dare quattrini a destra e a sinistra e comunque, per come mi ricordo io, sempre senza quel cacchio di braccio era stato. Mio padre era uno dei pochi a non c’avere paura a dirgli le cose in faccia, all’Alberico, e quello, pure se per tutto il tempo si azzannavano, in fondo lo rispettava. Perché mio padre, non faccio per dire, era uno con due comesichiamano accussì. C’ordinò di abbozzare e di continuare ad arrotolare le reti, ché di stare a spaventare i bambini una cosa da vero fetente era!«Che è ‘sto Uomo-Purpu, pa’?», ci chiesi quel giorno io mentre lo zio metteva in moto la Simca e ci diceva di salire, ché s’era fatto tardi ed era meglio se a papà non lo disturbavamo.«Lassa perdere, Nico’», disse quello facendo una carezza sui capelli bianchi di mio fratello e accompagnandoci alla portiera, «fesserie solite dell’Alberico sono…».
(incipit del racconto Nostro Signore l'Uomo-Purpu, di Omar Di Monopoli, contenuto in Meridione d'Inchiostro - ed. Stilo)