"Oh, oh-oh,
life can be cruel.
Life in Tokio"
- Japan -
- II -
Diventa non così improbabile, allora, stabilire una continuità nella pluralità
di toni, di atmosfere, di suggestioni, che e' innanzitutto uno sguardo
sull'individuo, sulle forze che ne condizionano lo stare al mondo, nei modi di
un tentativo teso a leggere il più lucidamente possibile le frizioni esistenti
fra i retaggi culturali di un'antica compostezza, di un "ordine" a cui non e'
estranea la dimensione spirituale dell'"armonia" (anche morale, sentimentale,
psicologica) - solidissimo mastice di una conservazione fondata su rigide
compartimentazioni sociali e su secolari equilibri di potere - e il furore
schizofrenico, l'accelerazione parossistica imposta dalla tutt'altro che
morbida dittatura della tecnologia, del denaro, delle merci, la quale, per sua
stessa natura e inerzia, recalcitra ad ogni "ordine" che non sia funzionale al
proprio auto-potenziamento; rifiuta ogni gerarchia stabilita, ogni potere
organizzato, che non preveda una sua voce in capitolo: disperde e riassembla
ogni struttura collettiva - quasi per riflesso condizionato, al punto in cui
siamo, pianificata e realizzata a partire dalle sue prerogative -. Ragioni,
queste, che hanno una loro importanza al momento di tratteggiare le forme
mentis, di definire le personalità dei tipi umani da rappresentare. Emerge, in
tale prospettiva e in particolare - e valga come notazione di carattere
generale - una figura femminile complessa, scrigno di tutta una serie di
sfumature, alcune prevedibili, sul crinale di un folklore consolatorio (e
d'immediata resa, soprattutto in Occidente) - pazienza, remissività, stoicismo
troppo spesso in mesta rima con masochismo, a fare da substrato ad una
semplicistica frivolezza condita d'ignoranza e superficialità ed espressa
secondo la gamma limitata di una compiaciuta petulanza ciarliera - altre, al
contrario, sorprendenti e modernissime - la proverbiale sensualità elusiva,
l'avvenenza "letale" di visi e corpi filiformi, come pure la forza di una
saggezza, di una perseveranza e, non di rado, di una crudeltà, ancestrale,
quelle e questa sempre più spesso scientemente esibite e utilizzate non solo e
non tanto nell'ambito "privato" dell'attrazione o del quotidiano più prosaico,
quanto in quello "sociale", più torbido, del potere, degl'interessi, della
"manipolazione"; come anche nell'altro, "intimo", più misterioso e oscuro,
della violenza, dell'umiliazione, quand'anche della ratificazione
dell'inamovibilità di certi sistemi di regole (interpersonali, familiari, di
clan), in una sorta di insinuante "neo-matriarcato" sospeso tra passato e
futuro ma ben vivo e operante -. Intorno, vicino, sovente in contrasto con un
universo muliebre così sfaccettato, sta l'uomo, nei territori di un'eredita'
nei suoi tratti più profondi all'apparenza ancora inscalfibile (con le dovute
eccezioni riconducibili ad inquietudini ed "ossessioni" registiche più o meno
accentuate), per cui egli sembra essersi limitato ad un travaso meccanico della
semi-leggendaria inclinazione marzial-guerresca per la supremazia e l'onore
nella lotta senza pietà per il denaro e lo 'status' che la sua disponibilità
implica, restando in tal modo maggiormente vincolato ai destini di
individualità per certi versi "condannate" ad una reiterazione che la realtà
febbrile e veloce di oggi, oltre a spogliare di qualunque residuo di nobiltà e
autorevolezza ha anche privato - e sembra un esito definitivo - di margini di
rinnovamento, come anche di una pedissequa riproposizione in chiave tradizionale: prese inservibili, in ogni caso, per un ancoraggio solido al
flusso "inarrestabile" degli eventi, ovvero a quella singolare creatura che e'
il mondo-della-tecnica-e-del-denaro i cui appigli sono, come e' noto, di fondo,
contraddittori (se non, persino, non contemplati, perché teorizzati in partenza
come pletorici); comunque in metamorfosi continua. Di fatto, aleatori.
Alla luce di ciò, risulta più agevole comprendere - pur essendo solo un
riferimento fra tanti, anche se significativo - il possibile specchiarsi di due
opere diversissime tra loro eppure come "orfane" l'una dell'altra in questa
inesausta "compresenza" - fatta di richiami, di allusioni, di ricorrenze di
luoghi, epoche e volti - di arcaico e futuribile, di destini sempre in bilico e
pervicacia a rimanere e a contare di radici millenarie; di fughe (più o meno)
possibili nelle pieghe senza limiti del desiderio e i tributi inauditi ingiunti
dalla ferocia del "qui e ora". "Ashes of time" di Wong Kar-way, da un lato
(lavoro del 1994, giustamente proposto in originale con sottotitoli nella
versione 'redux' curata dallo stesso regista), disperato scavo, tra le crepe di
una sfolgorante scorza "wuxia", nella desolazione e nei labirinti di una
passione tanto vagheggiata e sofferta quanto sterile o, semplicemente, fuori
portata; impreziosito da linee tanto essenziali e colori (da intendersi anche
come prisma emotivo) tanto vividi quanto e' distante il tempo interiore che
lungo le prime si muove e i secondi desidera, smarrisce e rimpiange, fino a
ridurre, appunto, la sua consistenza a cenere/"ash", ossia ad una specie
d'immaterialità affine al sogno ma per sempre malinconicamente inappagata. E
dall'altro, "The Yellow Sea" di Na Hong-jin, datato 2010, epopea al contrario,
tetra e derelitta, di un uomo travolto - nel corpo grigio di agglomerati urbani
da distopia realizzata anzitempo - da avidità e dissipazione, figlie minori,
forse, ma più che legittime, oltreché gemelle, di un mondo per cui la morsa
(nello specifico) dei debiti non e' che un altro anello nella catena
anestetizzata del disgusto e dell'abiezione: cronistoria di un "animale"
braccato da una dimensione talmente materiale dell'esistenza da invocare quasi
la necessita' dell'orrore, del sangue, spazzando via, di contro, la stessa idea
di una tregua - amore, sogno, illusione, in fondo questo sono - lo spazio di un
rifiato, di una scelta che, meramente, non può darsi all'interno di qualcosa
che e' un "mare giallo", luogo fisico, spettatore imperturbabile e, in egual
misura, palese metafora "biliare" di biografie-di-risulta una volta passate al
tritatutto dello "sviluppo". Analogie simili parimenti si rintracciano in altre
pellicole - diverse per ambientazione, linguaggio e caratura - ad alimentare
l'impressione di una variegata persistenza (di soggetti, di snodi, di vie
d'uscita come di trappole a tenuta stagna), imperfetta ma caparbia, tale cioè
da travalicare comunque i confini dei singoli paesi per comporre uno spaccato
tanto eterogeneo quanto rappresentativo della vicenda umana negli "strani
giorni" di un'immane e, con ogni probabilità, decisiva transizione: la nostra,
quella di uomini e donne del ventunesimo secolo.
Ecco, quindi - l'asistematicita' dell'elencazione e' voluta - "Secret reunion"
(2010), di Hun Jang, singolare "buddy movie" (interpretato, tra gli altri, da
Song Kang-ho, attore prediletto di Park Chan-wook), sullo sfondo di diffidenze
e avvicinamenti al cui apice si trovano una spia "dormiente" e un agente dei
servizi segreti caduto in disgrazia, al di qua e al di la' del 37mo parallelo;
"The chaser" (2008), feroce esordio del già citato Na Hong-jin, in cui un ex
detective entrato nel giro della prostituzione e' costretto a reindossare i
panni del segugio allorché diverse "sue" ragazze scompaiono in circostanze
misteriose. E "The thieves" (2012), di Choi Dong-hoon, spettacolare e vivace
esempio di commedia "modello Ocean" all'interno della quale un gruppo di ladri,
tra colpi di scena, peripezie, doppi e tripli giochi in cui (quasi) nulla e'
ciò che sembra, fa di tutto per impossessarsi di una preziosa collana chiamata
"The tear of the Sun". Ancora, "The Berlin file" (2013), di Ryoo Seung-wan,
thriller spionistico convenzionale ma sostenuto da un buon campionario di scene
d'azione a far da raccordo ad un complicato andirivieni a base di traffico
d'armi, agenti in incognito, finanza ed organizzazioni terroristiche. Di
tutt'altra pasta, speziato (molti dicono appesantito) da uno stile ricercato,
sovente barocco, che non si tira indietro davanti all'uso del 'ralenti', di
tessiture musicali "incongrue", di cromatismi vistosi, di esibite violenze e
venature horror - tutto ad orbitare attorno al mondo dell'infanzia e
dell'adolescenza - "Confessions" (2010), di Nakashima Tetsuya. Stessa o simile
"follia" anima "Sukiyaki western Django" (2007) di Takashi Miike nel quale -
segnalata la presenza di Tarantino nei panni di un maestro d'armi - si
squadernano di fronte agli occhi, nel cuore dell'archetipico intreccio che vede
un eroe senza nome barcamenarsi tra due potentati sempre in lotta, in una
fantasmagoria sfrenata e a tratti paradossale, riflessi deformati di Kurosawa,
di Leone e di un nutrito numero di spaghetti-western nostrani. Sempre di Miike
si ricorda "13 assassini" (2010) - ispirato all'omonima opera di Eiichi Kudo
del 1963 - film-di-samurai brutale e in parte pervaso da un cupo fatalismo, via
via a stemperarsi fino all'apoteosi iper-coreografica della battaglia finale,
cruenta, movimentatissima e pressoché senza scampo per i contendenti. Di
respiro metropolitano, invece, e di ritmo ora pronto ad aumentare i giri ora
disposto a concedersi pause per seguire i movimenti (anche interiori) di
personaggi assediati da una solitudine oramai intrinseca alla loro condizione,
due lungometraggi di Pou-Soi Cheang, "Accident" (2009), basato sulle singolari
vicissitudini di un killer in grado di mascherare le proprie esecuzioni sotto
le spoglie di messinscene intricate al punto da simularne la casualità (almeno
fino a quando non dovrà accorgersi che l'imprevedibilità non e' solo una
variante dell'ingegno umano ma uno degl'ingredienti primi della struttura
stessa del mondo) e "Motorway" (2012), sfida senza quartiere su quattro ruote
per le strade di Hong Kong, tra un poliziotto impulsivo, testardo (e il suo più
riflessivo compagno) e un eccezionale pilota-filosofo aggregato al crimine.
Risale al 2008 "Beast stalker", di Dante Lam, particolare 'noir' sospeso tra
colpa e redenzione: la prima vissuta assai malamente da uno sbirro roso da un
tormento incancellabile; l'altra perseguita da una madre attraverso la ricerca
perentoria di una giustizia il cui sentiero da percorrere e' oltremodo
tortuoso. A fare da catalizzatore, una giovane vittima innocente. Indi
"Shaolin" (2011), di Benny Chan, epopea tragica nella Cina degli anni '20
travolta dalla devastazione di conflitti intestini in cui il riscatto personale
non può esimersi dallo scontrarsi con l'implacabilita' dei gravami da pagare al
sangue. Del 2012 e' "Confession of a murder", di Byeong-gil Jeong, paradossale
e allusiva parabola contemporanea focalizzata su un omicida (presunto),
l'irriducibilita' di un poliziotto cocciuto e stravagante e, nell'opacità
dell'incertezza che permea l'intera storia, sulla dolciastra e sinistra
capacita' distorcente dei mezzi di comunicazione di massa. Di gusto 'retro'' e
piglio a volte ironicamente "saccente", "Bullet vanishes" (2012), di Law Chi-
leung, riunisce, attorno ad un caso bizzarro quanto insolubile, l'astuzia, la
pedanteria, la scaltrezza e la malinconia di un Holmes e di un Watson in salsa
orientale. Suggestioni e atmosfere stranite intridono, al contrario, "Black
home" (2007) di Terra Shin, in cui le indagini del goffo assicuratore
protagonista conducono la vicenda sul cammino di un orrore imprevisto, di un
incubo ad occhi aperti. Rocambolesco e fracassone - infine - quasi
un'emanazione (se possibile) arricchita del già caleidoscopico microuniverso de
"I pirati dei Caraibi", "Legend of the Tsunami warrior" (2008), di Nonzee
Nimibutr, che, tra regni conquistati e perduti, vendette giurate e dilemmi
legati alla crescita, tenta, con risultati alterni, di shakerare in due ore
abbondanti di spettacolo, battaglie navali, abbordaggi pirateschi, arti magiche
e marziali et...
E' sensato notare, pertanto e in conclusione - e proprio in virtù dei pochi
esempi appena riportati, chi più chi meno in linea col tentativo di misurarsi
con l'esperienza umana all'alba di un nuovo millennio - quanto il divario (di
certo geografico ma non solo) che vincolava fino a non molto tempo fa
l'Occidente ad una considerazione delle manifestazioni della cultura popolare
dell'Oriente - estremo o meno - oscillante tra sussiego, paternalismo, se non
pigra indifferenza, si sia assottigliato, e ciò in gran parte perché la partita
decisiva - quella della sopravvivenza in un futuro la cui possibilità (al di
la' delle "sorti e progressive" tipiche di ogni propaganda) e' ben dentro il
regno delle incognite - si gioca oramai su un solo campo, vasto e accidentato
come l'intero pianeta, e coinvolge tutti. Fosse solo per attenersi ad un logico
principio di precauzione, allora, che sarebbe il caso di sbrigliare un po' più
la curiosità riguardo a come la pensano (e a come la vedono) "quelli" all'altro
capo del mondo.
- parte seconda -
FINE
TFK
Magazine Cinema
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