Nota a Sapienziali di G. Lucini

Creato il 09 luglio 2010 da Fabry2010

di Giorgio Linguaglossa

G. Lucini, Sapienziali, Puntoacapo, Novi Ligure 2010

Nel saggio giovanile Tradizione e talento individuale del 1917 Eliot formula il problema con pragmatica chiarezza: «La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica. Essa esige, anzitutto, che si abbia un buon senso storico». Nella sua opera successiva il poeta inglese annuncia l’esaurimento della modernità.

Una delle caratteristiche principali della post-modernità è la critica alla modernità e il suo oltrepassamento all’indietro: all’idea del «nuovo» e di innovazione ininterrotta della letteratura, subentra l’idea del ri-ciclo e del ri-uso. Questo è chiaro in molti autori post-moderni oggi inquadrati come neoclassici. Il mondo salvato dai ragazzini (1968) di Elsa Morante è un’opera tipicamente post-moderna, con il libero impiego di vari generi narrativi che si sovrappongono e si elidono nell’ambito di un discorso poetico ormai vulnerato; Trasumanar e organizzar (1971) segna l’ingresso di un discorso poetico sostanzialmente non dissimile dal discorso narrativo; La beltà (1968) di Zanzotto è un capolavoro di microcitazioni e di variazioni, siamo arrivati alla summa del Moderno che si autocita e si fagocita. Ormai è chiaro che le rivoluzioni artistiche non si fanno più in avanti ma all’indietro, ripescando i brandelli e i sintagmi di un mondo trascorso. Auden e Brodskij sono autori tipicamente post-moderni, tornano al ri-uso della metrica tradizionale ribasandola su un materiale sostanzialmente estraneo e refrattario alla gabbia metrica della tradizione. Il Moderno (con tutte le sue avanguardie) tende a diventare un fenomeno del passato, diviene un patrimonio amministrato, museo, mercato. All’idea del progressismo estetico subentra l’idea di un regressismo estetico, di una diffusione dell’estetico in tutte le direzioni, fuori dagli ambiti privilegiati e protetti della tradizione (del Moderno). Il nichilismo antitradizionale delle avanguardie è progressivo, tende al futuro, vuole andare sempre oltre e al di là. Distrugge per costruire un mondo nuovo. C’era ancora un patrimonio da dilapidare ma c’era anche consapevolezza di un mondo nuovo da abitare e conquistare.

Possiamo dire che oggi la situazione del Dopo il Moderno non consente alcuno sguardo al Futuro e al Nuovo, considerate entità sconosciute prima ancora che disconosciute. Il libro di Gianmario Lucini si inquadra perfettamente entro questo ambito storico e concettuale: è un tentativo di scavalcamento all’indietro della modernità ripristinando sia le tematiche «alte» che quelle «basse» del «quotidiano».  La prima parte del libro è formata da «nove sequenze», sostanzialmente delle variazioni intorno a delle citazioni (da Giobbe, Qohélet, Siracide, Isaia); la seconda parte, invece, è formata da 36 componimenti poetici dai marcati accenti civici e politici. Ne risulta un libro costituito in due stili e due approcci metodologici completamente diversi: tendenzialmente ieratico il primo e tendenzialmente cronachistico il secondo. Ne risulta una divergenza che, prima ancora che stilistica, è concettuale, culturale, in ultima analisi oserei dire politica, di politica estetica. Dallo stile tendenzialmente gnomico-aforistico della prima parte si passa allo stile tendenzialmente cronachistico della seconda. Ed è in questa ambivalenza, in questa oscillazione tra due stili (inconciliabili) che si svela la non conciliazione di ciò che non è stilisticamente conciliabile. Fatto sta che il problema della coesistenza di linguaggi disparati e divergenti, caratteristica delle scritture del Dopo il Moderno, non può essere avviato a soluzione con un atto individuale o con una opzione privata dello stile. Molto diseguale nella resa stilistica, la scrittura di Gianmario Lucini appare attraversata da una inquietudine (stilistica e materica) per tutto ciò che sfugge al suo calco mimetico. È l’invasione materica di cui si fa carico il discorso poetico di Lucini, per un verso un peso-zavorra, per l’altro, un sostrato sul quale viene basata la versificazione, che rende questa scrittura sabbiosa, petrosa, scagliosa e irta; con le parole di Lucini: «dalla mia poetica ho totalmente rimosso il problema del linguaggio, non per scelta ideologica ma perché non lo sento, non me ne importa nulla (con tutto quello che ne segue…).  Lo stile è la mia ultima preoccupazione anche se cerco uno stile.  Il linguaggio è uno strumento, nulla di più e come tale va usato bene: la poesia non è linguaggio.  Personalmente concepisco la poesia come una serie di regole che uno si inventa in un necessario dialogo con la tradizione (e come si farebbe a farne a meno?  è assurdo) ma progettando il linguaggio…».

Personalmente, credo che i migliori esiti estetici siano attinti nella prima parte, molto più compatta e catafratta nella materialità dello stile, nella seconda parte, invece, la scrittura tende a perdere la compattezza della prima sezione, tende alla dispersione e all’entropia dei linguaggi divergenti e distrofici. Ma è chiaro che un discorso poetico come questo di Gianmario Lucini non può essere adeguatamente compreso e apprezzato se non si tiene conto del rapporto conflittuale tra il discorso poetico e il generale moto di riflusso entropico dei linguaggi della comunicazione strumentale propri della civiltà mediatica. È questo il punto fondamentale a vantaggio della scrittura di Lucini.



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