Una mia nota di lettura a un’intensa poesia di Rossella Tempesta. Un’occasione per riflettere su vita e morte, realtà e finzione, verità e menzogna.IM
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Rossella Tempesta
Giorno dei morti
I morti non sono mai morti
mentre le guerre, la fame, le sofferenze
sono i frutti, il raccolto, di una grave dimenticanza
una non ricordanza
l’assenza di specchi
la loro presenza velata
ai cari occhi degli uomini
di perduti, frenetici e inani
combattenti contro i mulini
ciechi, sordi, dimentichi.
Dimenticanti, si sono
dimenticati.
Non trovano la strada e le voci
in ogni casa che ogni strada abita:
il tugurio, il castello, il tumulo di terra
e l’ossario sono un’unica storia
la pulce del cane, il cane, il padrone
un’unica cosa, la gradazione
di ogni colore, l’odore che è la storia
infinita, mai iniziata, è.
La greve oscura dimenticanza
festeggia il giorno dei morti viventi
e accendono lumi al silenzio
pure alcuni assassini.
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Nota di Ivano Mugnaini a
Giorno dei Morti
Ci obbliga a chiederci se siamo vivi, la poesia di Rossella Tempesta. Se siamo viventi, non sopravviventi. Ci invita a individuare il discrimine, il crinale da cui è possibile separare e distinguere le terre e i deserti, i raccolti fecondi e quelli che generano la gramigna e le stoppie dell’odio e della violenza. Al di sopra di tutto, come una pianta infestante, il più vasto dei mali: l’indifferenza, quella “non ricordanza” che è atto di supremo rifiuto dell’altro, annientamento preventivo, assassinio silenzioso.
L’esordio della poesia è perentorio, deliberatamente spiazzante: “I morti non sono mai morti”. La negazione dell’evidenza, l’apparente paradosso, possentemente iperbolico, ci trasporta in una dimensione che si colloca tra la realtà e la riflessione, tra l’osservazione dei dati di fatto e la sollecitazione ad andare oltre, leggendo tra le righe, muovendoci con passo rapido tra il detto e il non detto, l’inespresso che grida, accendendo “lumi al silenzio”.
La forza dell’invettiva deriva proprio dal tono che l’autrice ha scelto: non c’è mai un richiamo diretto, un’esortazione immediata. C’è, in questa poesia, un pungolo alla presa di coscienza, un richiamo a riconoscere, riconoscendosi, “la strada e le voci”, individuando le radici condivise, i luoghi, le parole, quella “casa che ogni strada abita”.
Questo tessuto connettivo è abilmente e adeguatamente rispecchiato a livello sintattico dall’utilizzo frequente di frasi in cui i vocaboli si legano l’uno all’altro, per analogia e per contrasto, attraverso parallelismi e chiasmi. Il tutto ulteriormente intrecciato da assonanze, consonanze e rime interne: “una grave dimenticanza/ una non ricordanza/ l’assenza di specchi/ la loro presenza velata”. Ed è quasi uno specchio in più, un vetro su cui si è obbligati a riflettersi, questa alternanza tra termini posti in relazione e in opposizione. Come se le assenze e le presenze linguistiche facessero da sfondo e da eco alle scelte essenziali, le affinità e l’indifferenza, la solidarietà e l’egoismo.
L’impegno sociale è uno dei temi ricorrenti nella poesia di Rossella Tempesta, sia in questo testo specifico, che, a livello più ampio, in tutta la sua produzione. Ma l’autrice non dimentica mai il compito e la natura primaria della poesia: il lavoro attento sulla parola e con la parola, la ricerca del ritmo, dell’armonia e di quel senso ulteriore che rende il dettato e la vis comunicativa implicita, allusiva, ma, nonostante questo, anzi, in virtù di questo, urgente e coinvolgente.
Da questa poesia dalla trama sintattica e dall’intreccio severo ma quasi sinfonico delle sillabe, emerge in modo ineluttabile una domanda, un interrogativo, anzi due questioni interrelate: chi siano i “morti viventi” festeggiati dal loro idolo, la “greve oscura dimenticanza”, e, se noi, noi lettori, quelli che Baudelaire avrebbe definito “ipocriti, simili e fratelli”, possiamo escluderci a cuor leggero dal novero di tale mirabile schiera. Non resta che il coraggio di guardare il “tumulo di terra” e “l’ossario”, il presente e il passato, il qui e l’altrove, l’io e l’altro, e capire, com-prendere davvero, che “sono un’unica storia”, quella storia infinita, “mai iniziata”, e, di conseguenza, ancora da scrivere, tramite una parola che è anche gesto, atto concreto, azione della mente e del cuore.