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La rielezione di Napolitano è una sconfitta, non una vittoria. Sia chiaro: a me Napolitano mancava già giovedì. Ma riproporre il suo nome a seguito di due débâcle clamorose (quella delle larghe intese quirinalizie su Marini e quella esclusiva del centrosinistra su Prodi) è un’ammissione di ritirata, di inadeguatezza. È finito il Pd così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi anni, si è conclusa l’era di una classe dirigente che ha affossato in soli tre giorni la nuova (incapace, quest’ultima evidentemente, di far emergere le proprie istanze alla luce del sole). La “rottamazione” è stata azzoppata da se stessa, dalla sua corrente (altroché) e dai calcoli talvolta approssimativi (no a Marini, ma sì a Prodi per il voto subito). Il centrodestra ne esce malissimo (diffidate da chi dice che ne esce con le ossa più integre degli altri): nessuno tra le file del Pdl è stato in grado di promuovere una candidatura degna del Paese e dell’unità nazionale. Senza Berlusconi è un contenitore vuoto. L’unico vincitore è Grillo. Lo è in maniera negativa, però. È stato abile a far deflagrare le varie anime del Pd creando una serie di equivoci sul nome, rispettabilissimo (sia messo a verbale) ma al contempo strumentalizzato, di Stefano Rodotà. Non si scorge la costruzione o, per meglio dire, la ricostruzione dell’Italia. Se c’è, ditemi dove, che io non la vedo.
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