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Note su un post di Elvezio Sciallis circa la "disneificazione dell'immaginario"

Creato il 23 agosto 2013 da Psichetechne

Note post Elvezio Sciallis circa
Lo stimolante e come al solito molto pensato post di Elvezio Sciallis, che è importante che andiate a leggervi per meglio comprendere le ragioni di questa sorta di mia risposta a quel post, mi ha fatto venire in mente un articolo di Hanna Segal, analista di scuola kleiniana, pubblicato sulla rivista statunitense American Imago nel 2006. In questo articolo l'anziana e stimatissima psicoanalista metteva in discussione le più recenti tecniche curative dei suoi colleghi winnicottiani e kohutiani, da lei ritenuti, come direbbe Elvezio, "disneiani". La Segal motivava questa critica ai suoi colleghi ritenuti troppo "buonisti" nel modo seguente: 

"Emerse un nuovo interesse per le nozioni di cura e di cambiamento che non si incentravano sulla ricerca della verità e che consideravano le influenze personali dell'analista-per esempio il dare sostegno, consiglio e conforto-come parte integrante del processo analitico. I cambiamenti della tecnica adottati qui erano di un tipo che li rendeva fondamentalmente non analitici. Essi si opponevano allo sforzo psicoanalitico di giungere al cambiamento mediante la ricerca della verità" (Segal, 2006, pag.288).



Il post di Elvezio non ha ovviamente intenti psicoanalitici, ma chiama a sua volta in causa temi come quelli evocati dalla Segal in quell'articolo, primo fra tutti quello della "conoscenza", e cita a tale proposito H. Broch che scrive a riguardo: "La sola morale del romanzo è la conoscenza; un romanzo che non scopra alcuna porzione sconosciuta dell'esistenza è immorale". Elvezio afferma poi che questa frase di Broch si può applicare, oltre che al romanzo, a molta produzione cinematografica perturbante contemporanea ritenuta "disneiana" appunto perché  consolatoria e autoreferenziale, come ad esempio l'ultimo "The Conjuring" di James Wan, e il recente "Pacific Rim" di Del Toro, paccottiglia da luna park da buttar via, secondo Elvezio perché, come sottoscriverebbe la Segal, si tratta di prodotti che non determinano alcun "cambiamento mediante la ricerca della verità". Elvezio rimanda poi ad un post di Lenny Nero nel quale si dice che chi scrive oggigiorno di cinema horror si divide ormai tra "due diverse concezioni del genere horror: da una parte la ricerca del perturbante (termine tanto caro ai barbagianni freudiani), dall'altra quella di un ridanciano luna-park. Da una parte una sfida atavica e tribale ai propri sensi, alla propria morale, un assalto all'inconscio e all'immaginario, dall'altra la convenzionalità, l'assuefazione, una paura che ti fa il solletico all'improvviso e poi ti da una carezza". Dal momento che mi sento di appartenere alla prima delle due "diverse concezioni" cui fanno riferimento Sciallis e Nero, e cioè a quella dei "barbagianni freudiani", ma simultaneamente ho parlato bene sia di "The Conjuring"
Note post Elvezio Sciallis circa che di "Pacific Rim" (e anche di "After Earth" sulle pagine del sito della Società Psicoanalitica Italiana, horribile dictu), ritenuti da Elvezio una inutile, "infantile", "disneiana" pappina, mi sono sentito tirato in causa dal suo post, e desidererei replicare, soprattutto perché ritengo quello di Elvezio uno scritto molto importante e molto meritevole di attenzione per chi scrive di Cinema Perturbante su blog, seppur in modo amatoriale. Partirei da Freud, naturalmente, che secondo Elvezio che riprende Nero, informa quella concezione del Perturbante, tanto cara a noi "barbagianni freudiani". Tanto per cominciare, Freud non ha mai amato il cinema in generale e il cinema horror in particolare. Freud rifiutò un'offerta di centomila dollari da parte del produttore americano Samuel Goodwin per partecipare alla stesura di script relativi a tutta una serie di film che Goodwin aveva in testa. Nonostante Karl Abraham e Hans Sachs, due tra i più quotati allievi del maestro viennese avessero deciso nel 1925 di collaborare con il regista Wilhelm Pabst alla sceneggiatura di un film divulgativo sulla psicoanalisi, Freud si tenne molto alla larga da tutto questo , e già in una lettera a Ferenczi del 1916, scriveva: 

"La riduzione cinematografica sembra inevitabile, così come i capelli alla maschietta, ma io non me li faccio fare, e personalmente non voglio avere nulla a che spartire con storie di questo genere. La mia obiezione principale rimane quella che non è possibile fare delle nostre astrazioni una presentazione plastica che si rispetti. Non daremo comunque la nostra approvazione a qualcosa di insipido" (Freud-Ferenczi, Lettere, 1914-1918). 

Sul tema del Perturbante in Freud occorre cioè andare cauti (aldilà dei barbagianni che si spacciano da freudiani e usano tale concetto come gli pare, talvolta anche un pò parassitando il pensiero di Freud) : di Perturbante Freud parlò solo in un breve scritto del 1919 e riguardo ad un racconto di Hoffman, "Il mago sabbiolino". In quello scritto si parla di Letteratura, non di Cinema, sebbene Freud e la Psicoanalisi fossero già entrate in contatto con il nuovo strumento inventato dai Lumiere nel 1895 (come dimostra la lettera a Ferenczi). Tutto questo pistolotto storico-psicoanalitico per dire che la nozione di "barbagianni freudiani" applicata a chi scrive recensioni di film horror è di per sè inappropriata. Occorre andare oltre e dopo Freud per cogliere un reale interesse della Psicoanalisi verso il cinema perturbante, ma molto oltre: bisogna arrivare quasi ai nostri giorni, ad esempio alla profonda interpretazione di René Kaes (2010) di


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"Un tranquillo week-end di paura" di J. Boorman, che troviamo nel suo libro "Le alleanze inconsce". Ma quello che mi preme qui di più sottolineare (e torniamo alla citazione iniziale della Segal), è che, oltre a descrivere una categoria "freudianamente" inappropriata di "critici" del Perturbante, nel post di Elvezio la si associa ad una "ricerca della verità", ad una "conoscenza", ad una "oggettività" che sa più di lacaniano o kleiniano che di davvero freudiano. Vorrei chiederlo a chiare lettere (anche alla Segal, oltre che ad Elvezio): ma qualcuno sa cos'è la Verità, l'Oggettività? Credo sia importante questa domanda, perché se non ce la poniamo, allora poi diventa facile, anzi facilissimo dividere i "disneiani" dai "barbagianni freudiani", così come i "veri analisti" della Segal dai "buonisti" di Winnicott e Kohut, cioè diventa facile cadere in un dogmatismo che si dice a parole di voler combattere, ma che si ricrea nel momento in cui lo si vuole abbattere in nome della Verità (per esempio già dividendo il "campo di battaglia" in due concezioni contrapposte). La Verità, io penso, non esiste.  La Segal, in nome di una "verità psicoanalitica", secondo lei assolutamente "freudiana", nel suo articolo faceva riemergere una disputa tra Anna Freud e Melanie Klein che sembrava terminata negli anni '40, e che invece, ancora nel 2006 divide gli analisti "mammosi", confortanti e supportivi, da quelli più "seri" e davvero (loro sì!) freudiani, cioè quelli che, parafrasando Lenny Nero, preferiscono "dare e ricevere adulti schiaffi che infantili buffetti". E sì, perché poi è lì che va a finire la Verità della Segal, così come chi divide rigidamente i "disneiani" dai "barbagianni" della critica cinematografica: l'infanzia. Un'infanzia fastidiosa, che bisogna togliere di mezzo, altro che "carezze della mamma"; siamo adulti, uomini duri e sappiamo noi cos'è davvero il Perturbante, altro che queste bambinate di "Pacific Rim" e "The Conjuring". Il punto è invece che il Perturbante lo sanno e vivono proprio i bambini: le angosce sono infantili, non adulte (sia quelle schizoparanoidee che quelle depressive, per usare un linguaggio kleiniano), fanno parte della preistoria, non della storia dell'individuo. Stanno nascoste nelle faglie egoiche a lungo, e il Perturbante (il "nascosto" che riaffiora secondo Freud) le fa riemergere, le riattiva (nel cinema ciò avviene mediante una regressione voyeuristica imparentata con quella che caratterizza il lavoro onirico), ne riattiva le tracce mnestiche (vedi S. Freud, "L'Io e l'Es", 1922), aldilà che il riattivatore estetico sia "The Conjuring", "Begotten" o "The Bunny Game". L'Unheimlich è sempre imparentato con l'Heimlich, secondo Freud, cioè il perturbamento nasce quando il familiare e l'estraneo sono integrati misteriosamente in un "dualismo affettivo": per Freud il Perturbante è in ultima analisi "l'accesso all'antica patria",


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cioè al grembo materno, a ciò che è più familiare, infantile, originario, ma rimosso (la mamma confortante così odiata dalla Segal!). Voglio dire che ho trovato molto interessante il post di Elvezio perché riecheggia curiosamente una disputa teorica che ha caratterizzato (e per certi versi tuttora caratterizza) la storia del movimento psicoanalitico. Una disputa teorica ma anche naturalmente molto tecnica che vede da una parte coloro che vedono l'analista come colui che deve stare dalla parte della Realtà/Verità e che quindi sul piano tecnico deve dare "adulti schiaffi" interpretativi al bambino-paziente; e dall'altra invece come colui che incarna una funzione materna contenitiva,  empatica, che lascia spazio assoluto all'immaginario del paziente, anche quello "disneiano", in modo che egli possa sperabilmente raggiungere aree mai ascoltate del suo Sè. Sentiamo a tale riguardo cosa scrive Masud Khan, allievo di Winnicott, certamente un "buonista" per dirla alla Segal: 

" Il piccolo umano è il solo organismo vivente che esce dalla matrice per immergersi nel nuovo ambiente in modo traumatico e prematuro. Di qui la necessità, per la madre e/o per i suoi sostituti, di dispensare cure intensive e lunghe (...) La domanda che allora si pone è la seguente: in che modo incontriamo, una volta adulti, questa follia [l'infanzia] e questa solitudine? In tre modi. Con l'arte e con la letteratura; con l'esperienza di una mutualità non eccitata con l'altro; negli stati mistici, come li conoscono i sofisti persiani e i monaci Zen (...) Il peggio ha inizio quando ci sforziamo di dare senso a questo non senso di una follia parlata riferendoci al nostro vocabolario concettuale, quello al quale siamo consacrati sia per ascoltare che per interpretare il materiale normale o patologico. La nostra sollecitudine a questo punto ci fuorvia: vogliamo ad ogni costo dare senso a questo non senso ricostruendo i fatti (Winnicott) e i fantasmi (Melanie Klein) della prima infanzia. Ma questo non è di alcun aiuto e quanto c'è di potenzialmente creativo nella follia ricade nell'oblio." (M. Khan, 1981, pag.189). 


Quando Khan dice che ci sforziamo di dare senso a questa specie di "follia" che è l'infanzia, usando il nostro vocabolario concettuale (adulto), sta dicendo che vogliamo riempire un vuoto con la Verità (Segal), con la Conoscenza, con l'Oggettività (Broch, Sciallis). Perché invece non lasciarci andare ad una "astinenza rappresentazionale" senza Verità, senza Conoscenza, perché forse è solo laggiù che possiamo fuggevolmente intravedere il vero "luogo delle origini" (Winnicott), il "dov'era l'Es" (Freud), l'Inconscio? Perché idealizzare l'"adulto schiaffo" e relegare ad "infantile" il "buffetto", laddove è proprio quell'"infantile" a portare il segno della rimozione primaria freudiana, il segno del Perturbante appunto, il Perturbante freudiano? E' "disneiano" quell'immaginario rimosso? Ha bisogno della morfina di Wan e dei robottoni di Del Toro? Forse, ma non è un suo problema, perchè il suo problema è semplicemente quello di trovare oggetti evocativi (il Cinema è uno di questi) che ne facciano risuonare la specifica tonalità espressiva. "Disneiano" è ancora una volta il significante del nostro "vocabolario concettuale" che vuole imporre la nostra Verità e a cui l'Infantile non interessa e non pertiene. Si sa, i bambini sono fastidiosi. Ma all'Infanzia, folle e solitaria, direbbe Khan, non importa questo vocabolario, importa solo che vi si accosti con delicatezza e rispetto, in modo isotopico, sempre che si sia interessati a capirla, e non a colonizzarla attraverso i nostri "adulti schiaffi", quand'anche dati dalla mano di un saggio e colto Zlavoj Zizek (anche lui lacaniano, quindi non esattamente "freudiano", in realtà). A quella parte di Sè infantile di cui ci dice suggestivamente, evocativamente Khan,  Wan e il Del Toro di "Pacific Rim" possono non sembrare "disneiani", ma molto isotopici ed evocativi, con buona pace della Verità della tecnica psicoanalitica della Segal. E se sono un luna-park di provincia, è in quei luna-park che il nostro Sè infantile è vissuto, appena "fuori dalla matrice per immergersi nel nuovo ambiente in modo traumatico e prematuro". E' lì, in quella provincia, che nasce il nostro personale Perturbante, il nostro Idioma del Sè (Bollas, 1987), non a Las Vegas, non a casa di Simon Abrams, non nel Simbolico o nel Reale lacaniano, ma nell'Immaginario, il nostro, nella nostra follia e solitudine privata (Khan) che "l'adulto schiaffo" vorrebbe radrizzare, quello sì, urlando "me ne frego!". D'altra parte se "Pacific Rim" o "The Conjuring" sono un "luna-park ridanciano" perché rimandano al rassicurante specchio narcisistico materno, che secondo Freud (non secondo me, sconosciuto recensore amatoriale di film perturbanti) coincide con il Perturbante medesimo, che dire allora di un'opera come
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"Heavenly Creatures" di Peter Jackson, tutta centrata sull'evocazione (a tratti volutamente e giustamente urlata) dell'immaginario narcisistico-gemellare adolescenziale? Quello è Perturbante per via della sequenza finale della morte della madre, forse? Se vogliamo stare su questa linea, allora io ho trovato decisamente più perturbante e meno "disneiano" "Un ponte per Tarabithia" di Gàbor Csupò (2007), che non il bellissimo e peraltro inquietante film di Jackson.


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Intendo dire che quando si parla di film sia utile non utilizzare mai uno strumentario terminologico-discorsivo occludente, definitorio, definitivo: Verità, Conoscenza, diventando noi stessi, nei nostri piccoli recinti di blog amatoriali, soggetti "supposti sapere", "adulti" rispetto ad altri definiti "bambini", che in nome di questa Verità vengono dunque degradati fino a diventare "merda", naturalmente. Bisogna stare attenti ad usare i significanti in quanto tali, perché dietro di essi si muove sempre l'Inconscio che rimane comunque legato all'"Infantile", che piaccia o no, se non altro per motivi legati alla "viscosità della libido" (o almeno così pensava Freud, vedasi ad esempio "Costruzioni nell'analisi", 1937 e "Analisi terminabile e interminabile", 1937). I meccanismi proiettivi ed identificativi mossi da un film e le lettur cui un film si presta sono molteplici, a maggior ragione se il film è un film "perturbante" (termine, ripeto, anch'esso da prendere con le molle e "freudiano" fino a un certo punto, vi ricordo). 

Ma c'è un altro elemento fondamentale che volevo toccare del post di Elvezio. L'idea cioè che esista un "vero Perturbante", svincolato da logiche "di sistema" o di contesto (di "legame" e di economia psichica gruppale intersoggettiva, potrei dire in termini psicoanalitici più moderni), un "Perturbante Assoluto" potremmo dire, che va a braccetto con l'idea segaliana di Verità Assoluta di cui ho già detto. Tale turbolenza asintoticamente assoluta , e qui Elvezio cita ancora Lenny Nero, significa  "ambire a farsi scoperchiare i neuroni", ambizione se si abdica alla quale, allora si diventa "dei pavidi reazionari in pantofole giustificabili solo se avete il background cinematografico di un bambino". Ancora una volta è il "supposto sapere" che parla, ma qui in particolare il discorso si fa totalmente eccentrico e lontano da una psicoanalisi che dall'altro lato si chiama in aiuto per suffragare le proprie tesi, pensando invece che sia molto vicina: per Freud infatti il Perturbante non era certamente questo "scoperchiamento dei neuroni", ma all'esatto opposto, il ritorno del rimosso di quel "background infantile" che si vuole espellere e denegare in nome della Verità. Bisogna conoscerlo e studiarlo Freud  per poi usarne il pensiero senza deformarne gli ambiti di applicazione, soprattutto se si vuole stare nel campo di battaglia dalla parte dei "barbagianni freudiani".  E soprattutto occorre sia chiaro che la Psicoanalisi non coincide con il Freud di Lacan, bensì con la storia in toto del pensiero psicoanalitico freudiano e postfreudiano che va da Freud e si sviluppa con la Klein, Winnicott, Bion, Kohut, eccetera (a tale proposito è utile ricordare che curiosamente i lacaniani non fanno parte dell'International Psychoanalytical  Association- IPA, fondata da Freud in persona, e nonostante ciò ritengono di essere loro i veri interpreti del pensiero di Freud). 

Non sono film come "The Conjuring" e "Pacific Rim" a preoccupare un "barbagianni" come il sottoscritto, che ritiene invece sia molto più utile spostare l'attenzione su altri bersagli nefasti dell'industria cinematografica horror contemporanea, prodotti che segnalano davvero una mutazione antropologica molto subdola quanto perniciosa, spacciandola per "Perturbante". Mi riferisco a molte franchise filmiche tipo l'infausto


Note post Elvezio Sciallis circa
"Twilight", di cui ho molto parlato anche nel mio libro sul disagio giovanile e sul quale quindi non mi dilungo ulteriormente. Ma mi riferisco anche, naturalmente, a tutta la sequela dei vari "Saw", o a certo uso del Rape & Revenge, tema di cui si discute saggiamente nell''ottimo intervento di Lucia. Filmografia a mio avviso mortifera (il contrario, cioè del Perturbante freudiano) perché attraverso subdole "introiezioni estrattive" (Bollas, 1987) che solleticano l'inconscio dello spettatore, si dirige dritta dritta nella direzione di uno sdoganamento di aspetti distruttivi, inumani, sado-masochistici, quelli sì imparentati molto strettamente con la bulimia, facendo credere che siano oggetti "normali". L'obiettivo più profondo e subdolo di certo cinema sedicente "perturbante" credo sia proprio quello di creare uno spettatore-fruitore bulimico, avido, tossicomanico, per averlo in pugno e inglobarlo nel "discorso del capitalista", come direbbe, in questo caso in modo pertinente, Lacan. Tale operazione fa leva sul trionfo onnipotente della pulsione bruta sul pensiero, con lo scopo di uccidere il pensiero stesso, di farci cioè accettare supinamente istanze totalitarie, distruttive, che pensavamo di aver tolto di mezzo col nazismo, ma che invece sono sempre lì, pronte ad essere alimentate facendo leva sulla bulimia di cui parla Elvezio al termine del suo post. Tutto questo sta peraltro già avvenendo da anni nel nostro paese, ormai trasformato in un immenso centro commerciale perverso nel quale si è fatto di tutto per dimostrare che "è normale" pescare ragazze minorenni dalle comunità terapeutiche in cui sono ospitate e ingaggiarle in festicciole per governanti mafiosi e potenti. Non occorre andare a Hollywood, o a casa di James Wan. I bersagli per una critica cinematografica eticamente all'altezza sono molto più vicini e meritevoli di attenzione di "The Conjuring". Per combattere tale deriva tuttavia penso occorra innanzitutto rinunciare noi stessi per primi all'idea di una Verità del Perturbante che genera poi un "campo di battaglia" in realtà inesistente tra "cultura alta" e "cultura bassa", operazione che ci fa facilmente buttar via il bambino con l'acqua sporca. E quel "bambino",  come ci insegna Freud, se lo si legge con attenzione, è il vero cuore, il vero motore del Perturbante. 

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