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4) La cintura (o dell’ultima volta).
L’ultima volta che ho avuto indosso questa cintura (larga, di tessuto jeans, a strisce orizzontali bianche e blu, chiusa da una fibbia metallica rettangolare con sopra scritto Levi’s), sarà stato in terza media. Nemmeno tredici anni, avrò avuto. Me lo ricordo bene, la usavo non tanto per tenere su i pantaloni -perché ero una ragazzina sviluppata d’un colpo, dalla sera alla mattina, cosicché i miei, quando alle sette già sulla soglia in partenza per la scuola, spostavano i loro sguardi preoccupati dalle cuciture con l’aria di stare per saltare, alla mia faccia segnata dal cuscino (e, data l’età, ancora senza trucco) mi chiedevano: “Ma sei sicura di voler uscire così?”- non la infilavo tanto tra i passanti per lo scopo di solito richiesto a quest’accessorio, ma per l’aria che supponevo mi donasse. Trendy, si sarebbe detto qualche annetto dopo, ma ancora quel termine non si usava. Neanche “fico”, mi pare che avessi ancora sentito pronunciare, ma in fondo uscivo da poco dalle elementari. E, a dire il vero, non avrei saputo dire cosa usassero i miei coetanei, per definire ciò che li metteva in linea con la moda.
Perché, per me, quelli erano tempi in cui il mondo era tutto nuovo. Senza saperlo, in pochi mesi avevo fatto un mucchio di ultimi gesti. Come l’ultima volta che avevo giocato con i Fiammiferini, chiusi nelle loro scatole esposte nell’ultimo lavoretto fatto a scuola, una bacheca di compensato tagliato col seghetto a mano. O l’ultima telefonata ad Alessandra, la mia migliore amica, alla quale avevo risposto che, no, a casa sua non ci potevo andare, perché avevo troppo da studiare, ma in realtà perché da lei avremmo fatto i soliti giochi da bambine, mentre io avevo deciso che con quel corpo tutto nuovo avrei dovuto affrontare solo nuove esperienze. Stare affacciata, per esempio, in barba ai compiti, per tutto il pomeriggio. E attendere l’arrivo della torma di motorini smarmittati, condotti in testa da uno su una ruota sola. Daniele, il mio primo ragazzo. Avevo salutato da poco anche l’ultima volta che su di me si erano affaccendate con premura le ultime mani neutrali di qualche adulto. Pediatra, nonna o genitore. E quella gita fu l’ultima della terza media, l’ultima occasione in cui indossai la mia cintura.
Per ogni cosa nella vita di una persona c’è una prima e un’ultima volta. Eventi che possono coincidere. O divaricare tra loro talmente tanto da finire col non mantenere più neanche il punto di contatto originale. Dipende. La cintura, per dire, la sto indossando di nuovo. Quanto mi sta bene, molto meglio che da ragazzina. Oggi che sono migliore in tutto, mi domando se questo tutto abbia qualche valore, perché non so vederlo, se non con discontinuità.
Ci sono fasi nella vita. Quella che attraverso io, la chiamo la fase trasparente. Buttate all’aria le mistificazioni, usa alla cortesia per il rispetto che porto agli altri, anche a quelli che non mi somigliano neanche un po’, non tollero, non tollero proprio, almeno per ciò che mi riguarda, l’ipocrisia. La fase trasparente somiglia al processo che porta i vecchi a dire quello che pensano fregandosene delle reazioni.
- Mica sei vecchia.
- ok, ok. Per questo motivo tengo a freno la lingua. A cuccia adesso.
- Scorbutica.
- Belzebù (ti piace? lo ripetono tutti in televisione, oggi.)
- (Mhm. Carino, sì.)
- (Allora contentati e taci.)
Le illusioni sono quello che sono, ovvero nulla di reale. Metti il ’93, l’anno dell’esame di scenografia, di cui ho questo ricordo: la sera prima avevo steso tutte le tavole per il pavimento del salone. Un lavoro abnorme, ci camminavo in mezzo orgogliosa e, mentre le contemplavo, parlavo con Fabrizio dal cordless. Commentavamo l’avviso di garanzia a Giulio Andreotti sulla base delle accuse di Buscetta a proposito dell’omicidio Pecorelli. Eravamo eccitatissimi.
E solo in parte per l’esame.
Ci sembrava di vivere un momento storico. Ma Andreotti passò indenne quella e altre bufere. Arretrò a poco a poco nell’ombra e a noi restò il senso di qualcosa di incompiuto, che non facemmo in tempo a elaborare. Intanto era iniziata l’era Berlusconi che ci tenne occupati a brontolarne per vent’anni, nel corso dei quali siamo subliminalmente soggiaciuti al fascino perverso dell’illusione dell’immortalità. Credendo che tutto ciò che viene nella vita, viene sempre per restare.
E solo in parte a causa della giovinezza.
Da ieri, io almeno (di Fabrizio non so quasi più nulla da tempo), ho sentito cadere un ultimo velo. Ho visto ancora meglio le cose come sono, che l’illusione non aveva senso: Andreotti è morto. Ha “fatto” qualcosa per l’ultima volta. Era ovvio attenderselo, no? Era umano, certo. Ma le persone hanno la tendenza a sistemarsi comode dietro il paravento delle illusioni, finché queste non cadono (cadono sempre), lasciandole in mutande e soli davanti alle proprie responsabilità.