Al di là dei pregi e dei difetti, che nel film sono equilibrati e ben distribuiti, Notizie degli scavi andrebbe comunque premiato per la caparbietà e l’amore dimostrati da Emidio Greco nei confronti del folgorante racconto omonimo firmato da Franco Lucentini, autentica pietra miliare della letteratura novecentesca made in Italy in formato breve, della quale la pellicola vuole essere allo stesso tempo rivisitazione contemporanea e rispettoso adattamento. Una caparbietà e un amore che alla fine hanno pagato (in parte), consentendo al regista tarantino di riuscire a portare sul grande schermo, a distanza di quarantasette anni, questa sua personale trasposizione.
E pensare che doveva essere il suo esordio dietro la macchina da presa dopo il Diploma al CSC ottenuto nel 1966, esordio che arriverà otto anni dopo con la fantascienza minimalista de L’invenzione di Morel, senza alcun dubbio la sua opera più riuscita insieme al dramma dalle tinte gialle di Una storia semplice (1991). Non a caso entrambe sono le trasposizioni di importanti, e a loro modo significative, opere letterarie, letteratura alla quale Greco si è quasi sempre appoggiato per aggiungere tasselli di qualità alla sua filmografia: da Sciascia (Una storia semplice e Il Consiglio d’Egitto) a Casares (L’invenzione di Morel), passando per Blixen (Ehrengard). Quando questo non è avvenuto, vale a dire nei restanti tre film (Un caso d’incoscienza, Milonga, L’uomo privato), escluso ovviamente Notizie degli scavi, ciò che ne è emerso ha evidenziato un’altalenante instabilità narrativa a fronte della sempre elegante ricercatezza nella resa stilistico-formale.
Con Notizie degli scavi, presentato nel fuori concorso della scorsa edizione della Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia, Greco ritrova quantomeno un equilibrio narrativo che le opere a soggetto originale da lui timbrate non possedevano. L’uomo privato (2007), in tal senso, ne è la più lampante dimostrazione, tanto da risultare prolisso e vuoto, indecifrabile e fastidiosamente logorroico. Di tutto ciò, nel film del 2010 se ne avverte traccia, ma per fortuna la matrice originale ha evitato che i devastanti slanci autoriali insiti nel suo dna cinematografico si manifestassero interamente. Di autoriale ci sono la messa in quadro e la strenua eleganza figurativa che caratterizzano da sempre il cinema di Greco. Grazie al testo di Lucentini (è la seconda volta che un suo scritto viene tradotto al cinema dopo la bellissima versione del 1975 di La donna della domenica diretta da Luigi Comencini), del quale l’adattamento conserva intatta la rarefazione dei luoghi e la sospensione temporale, nonostante la storia, le azioni e i personaggi che la animano vengano di fatto immersi nella Roma dei gironi nostri, piuttosto che in quella degli anni Sessanta dipinta a suo tempo dallo scrittore, il film si mantiene sul filo narrativo che congiunge la commedia surreale ad una sorta di dramma intimista. Il risultato si può definire quasi un melodramma sfumato che congiunge due esistenze schiave della solitudine, quella di un uomo sulla quarantina, che un giorno si risveglierà dal torpore di una vita mediocre, e di una giovane prostituta che troverà in lui una spalla sulla quale piangere.
Rispetto alla fonte originale, la pellicola conserva il punto di vista e la centralità del protagonista, ma non la modalità di racconto in prima persona. Greco pedina il personaggio de “Il professore”, ben interpretato da un Giuseppe Battiston finalmente protagonista e non spalla, e su di lui costruisce situazioni e accadimenti. Intorno a lui una galleria di personaggi che lo accompagnano nella monotonia quotidiana, riflessi di un malessere, di un disinteresse e di un disamore nei confronti della realtà che li circonda. Oltre le sortite esterne in quel di Villa di Adriano a Tivoli, dove il regista si affida ad uno sguardo semi-documentaristico e alle note del fedele Luis Bacalov (6 film insieme), il resto è un cinema da due camere e cucina così caro a Greco (e non solo). Qui, tra stanze di ospedale, una cucina e un bar, c’è spazio per confidenze e scambi dialettici intimi e privati, che non coinvolgono tavolate solidali alla Ozpetek, ma un numero ristretto di persone che si confrontano e si scontrano. Da qui nasce l’impostazione meta-teatrale, da sempre croce e delizia del cinema del regista pugliese, votata completamente al verosimile piuttosto che al reale. La recitazione ne subisce le influenze, facendosi carico dei tempi morti e di una carica drammatica ancora più accentuata. Tutto ciò può infastidire o piacere, ma in questo caso è solo una questione di gusti.
Francesco Del Grosso