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Notte del Documentario Mediteranneo

Creato il 04 luglio 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Notte del Documentario Italiano

L’evento è organizzato dall’Associazione Babelmed, che dal 2001 pubblica l’omonimo magazine on line in francese, inglese, arabo e italiano, e dal Centre Méditerranéen de la Communication Audiovisuelle di Marsiglia (CMCA), in partenariato con il Caffé dei Giornalisti di Torino e il circolo romano dell’Assemblea dei Cittadini del Mediterraneo (ACM).

Mostrare, informare, rendere nota una realtà, porvi l’accento: l’idea di documentario si fonde con il cinema stesso, tout court. Dalle antiche vedute dei Lumière alla realtà poetica di  Flaherty, di Epstein o Grierson in cui la narrazione si interroga sull’equilibrio tra la realtà soggettiva ed oggettiva. Il cinema, dunque, sceglie e mette in scena la realtà, mezzo e fine privilegiato, perché ci si guardi intorno e si sappia osservare e porre il proprio sguardo sul mondo, cogliendo la vita vera. Ed è quest’ultima che la prima rassegna de La Notte del Documentario Mediterraneo si propone di cogliere, attraverso lo sguardo più reale possibile, attraverso il racconto di piccole e grandi storie ambientate in quattro paesi, nella cornice suggestiva a bordo di un barcone attraccato al Tevere di Roma, organizzata dall’Associazione Babelmed, il Centre Méditerranéen de la Communication Audiovisuelle di Marsiglia (CMCA), il Caffè dei Giornalisti di Torino ed il circolo romano dell’Assemblea dei Cittadini del Mediterraneo (ACM).

Bulaq Davide Morandini

Ad aprire la rassegna, in presenza di Davide Morandini,  uno dei due registi italiani, viene proiettato Bulaq (26’, 2011). A tre anni dalla fine delle riprese il docu-cortometraggio racconta la vita di persone residenti in un quartiere a poche centinaia di metri da Piazza Tahir, che durante la rivoluzione egiziana diventerà famosa in tutta il mondo. Un racconto che si compone di voci, parole annichilite, disperate e sperse, di fronte al proprio diritto negato, quello di vivere nelle proprie case, nel proprio quartiere di tutta una vita, Bulaq.

“Le rovine di Bulaq sono polvere del Paradiso. Quello che esce da qui muore come un pesce fuor d’acqua”. Così recita un uomo, ritratto su uno sfondo di vuoto desolante, la cui figura si confonde tra le macerie, la polvere, tra reti arrugginite di letti rotti, case diroccate ed in rovina sullo sfondo di una rivoluzione non ancora compiuta attraverso gli scontri nelle piazze di chi reclama i propri diritti negati da oltre trent’anni. Diventa un canto quello nella piazza, “Ecco l’Egitto, ecco i tuoi fratelli…” e sulle parole intonate, una dissolvenza oscura lo schermo, che si aprirà per l’ultima volta nell’alba di una città che si sveglia e durante una preghiera riprende uomini inginocchiati con le mani giunte. Poi si alzano, si allontanano e si sentono ancora nell’aria le parole di una voce stanca e fiera “Bulaq è bella, io voglio essere seppellito qui”.

“Abbiamo scelto di raccontare una storia che nonostante i cambiamenti, la rivoluzione e gli anni, sente ancora dietro di sé l’ombra di uno Stato, di un sotto-Stato che sopravvive”, così racconta Morandini, giovane regista e giornalista free lance alla sua prima regia.  Così ciò che è messo in scena, le voci, la rabbia, le proteste, le parole urlate, si fonde con l’altra parte di sé, l’invisibile in cui il gesto quotidiano si perde, e poi i silenzi, le pause su dettagli di occhi spersi di chi non sa cosa succederà.

Ancora una regia italiana, quella del giovane Giuseppe Carrieri, il cui lavoro, giunto alla selezione finale del Premio CMCA del 2013 nella categoria Memoria, mette in scena l’agghiacciante ritratto di una città bosniaca massacrata dalla guerra venti anni fa, Srebrenica.

“Non è un documentario ma il tentativo di raggiungere un luogo. E’ un film che lambisce il concetto di guerra“.

Lo descrive così prima che il film venga proiettato, “come un viaggio emozionale, un modo di perdersi”. L’uso del bianco e nero delinea dei passi come prima immagine, poi i dettagli di qualcosa che più avanti capiremo essere i resti di qualcuno che fu. Le immagini di una donna, tra le tante che racconta i propri incubi, si fondono con le piccole foto di volti scomparsi, poi nel sottofondo degli spari e la materializzazione della guerra. Un paese che ancora non ha trovato la pace perché ancora cerca le ossa di chi venne torturato ed ucciso.

In utero Srebrenica Giuseppe Carrieri

Questo In utero Srebrenica (52’, 2011) è il racconto di una ricerca delle madri e dell’ultimo incontro con i propri cari, opprimente perché mette in scena un loop ossessivo, la perdita di ragione di chi si vede privato del proprio sangue, della propria vita e continua a ricordare senza trovare pace.

“Quando cerchi qualcosa che non c’è, è inevitabile che impazzisci”, così recita una voce che lascia intravedere come la ricerca di realtà, di prove tangibili come i resti umani dei propri cari, sia una disperata ricerca di dare senso a qualcosa che non ne ha.

“Volevo raccontare una storia in cui ci fossero dei protagonisti. Una storia in cui il controcampo della guerra fosse questo”. L’oggetto della rappresentazione qui non attraversa mai la scena, non vi entra, non esce. Sembra intrappolato nel cuore, tanto da subirne la claustrofobica centralità, non perché il soggetto imperi sul quadro, ma piuttosto perché sembra subirne la chiusura, non potendogli sfuggire.

Diverso è il caso che riguarda le ultime proiezioni, quella spagnola di Lidia Peralta Garcia, Una casa para Bernanda Alba (52’, 2011), selezionata nel Premio CMCA del 2013 nella categoria Arte, Patrimonio e Cultura, che mette in scena a El Vacie, nella periferia a nord di Siviglia in cui si trova il più antico insediamento Rom d’Europa, otto donne gitane scelte per recitare una pièce teatrale di Garcia Lorca. Qui il racconto ha un sapore diverso, un delicato ed ironico excursus che mette in mostra a metà tra la rappresentazione teatrale della realtà, sul palcoscenico, e la realtà documentata del passaggio da una condizione ad un’altra, anche se per un periodo di tempo. Dopo la regia di Carmen, Queen of the Fishermen (2000), Berbers of the High Atlas (2003), La carovana dei manoscritti da Al – Andalus (2007), e Sudan, by the way (2009),  la prolifica regista da un lato registra la loro vita, i loro usi, le loro tradizioni e  dall’altro mette in luce un altro aspetto della realtà di un evento, la sua rappresentazione  scenica.

A notte inoltrata a chiudere la rassegna, l’ultimo piccolo film selezionato nella categoria “coto” nell’edizione del 2011 del Premio CMCA,

Mon vélo de rêve (15’, 2009), della regista turca Serda Yalin che sembra aderire più alle regole del docu-fiction che non al documentario vero e proprio scegliendo la storia di un bambino che sogna di avere una bicicletta; sogno che realizzerà facendo la guida turistica nella propria città, Hasankeyf, un sito archeologico nell’Est della Turchia.

Martina Bonichi


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