Un racconto tanto breve quanto bello, pubblicato in un settimanale francese il 5 ottobre 1939. Rappresenta la prima opera di Irène Némirovsky dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale.
Era la prima notte di guerra.
Un treno si dirige verso Parigi. Nell'oscurità brillano le stelle e tutti sono sospesi, proiettati da una vita all'altra, in bilico tra un passato certo e un avvenire di cui non conoscono niente, tantomeno se ci sarà.
Erano tutti lividi e benevoli; si scambiavano parole molto ragionevoli, ma che agitazione nel profondo! Ognuno di loro si sentiva spezzato, frantumato, abitato da due diverse anime: quella di ieri e quella dell'incerto avvenire, che non si riconoscevano più tra loro, che facevano uno sforzo vano e tormentoso per fondersi, ma era impossibile.
Gli adulti di quel vagone ricordano la guerra del '14, sanno che cosa sta per accadere, conoscono lo strazio della morte di un figlio, di un marito, di un fratello. Per i giovani è peggio, loro non lo sanno. Lo capiranno, poveri loro...
È la prima notte di guerra, una guerra di cui si percepiva lo scoppio da tempo. Una guerra di cui alcuni hanno avuto notizia alla radio, altri sentendo le campane suonare. I bambini credevano che quel din don dan annunciasse una nuova festa, invece no. Era il secondo conflitto mondiale, Hitler aveva invaso la Polonia e la Francia aveva dichiarato guerra, come mille altre volte prima, alla Germania.
Dalla mezzanotte scatterà lo stato di guerra e il treno potrebbe fermarsi, per lasciar passare i militari o chissà che cosa. Chissà quanto ci si metterà per arrivare a Parigi, per arruolarsi, per salutare qualcuno, per passare le ultime ore di pace insieme a una persona speciale che chissà, ancora una volta chissà, se ci sarà modo di rivedere.
È la prima notte di guerra, ma tutto sembra normale, in quel treno che va lento verso Parigi nessuno piange, nessuno urla. Sembra che nessuno abbia paura. Nella fretta di prendere quel treno, l'ultimo in tempo di pace, nessuno ha fatto caso alla classe in cui avrebbe viaggiato, così nello stesso scompartimento si mischia tutta la società. La guerra si percepisce dal chiacchiericcio: tutti si confidano, tutti si preoccupano degli altri, contadini e borghesi si prestano il cibo e il caffè, si raccontano del perché stanno andando a Parigi. La guerra è in quella fraternità di gesti che, se in tempo di pace se ne mantenesse un decimo, sarebbe sufficiente a fare la felicità del mondo.
Eppure tutto sembrava tranquillo, normale. Nessuna lacrima, nessuno strepito, nessuna folla urlante. [...] I volti erano gravi; non segnati da alcuna traccia di paura o di smarrimento. Soltanto, quel che colpiva, era l'incessante parlottare delle conversazioni, dei consigli, delle confidenze, la corrente ininterrotta di parole, da un capo all'altro del vagone, da uno sconosciuto all'altro. In tempi di pace, che silenzio in un compartimento ferroviario! Quale ferrea volontà di ignorare il vicino, di difendere contro di lui il proprio posto, i propri oggetti, i propri pensieri!
È la prima notte di guerra, una notte in bilico in cui nessuno sa niente, in cui nessuno in fondo ha voglia di arrivare. È una notte di tregua sulla soglia di una prova difficile. Si chiacchiera per passare il tempo, per non pensare. Per avere qualcuno che poi, alla fine, augurerà "buona fortuna". Ognuno racconta la propria storia. C'è chi ha il fratello che si deve arruolare e viene invidiata da chi ha un marito che sta partendo, perché un fratello, comunque, è meglio di un marito, di un fidanzato. C'è Marta che è scappata di casa per raggiungere il fidanzato con cui non è mai stata da sola e vuole assolutamente avere bei ricordi con lui, da custodire nel cuore per il tempo in cui dovranno stare lontani.
Alla fine il treno arriva alla stazione. La notte è finita. Col sole anche le persone tornano a essere quello che sono sempre, fredde e distanti, ferme ognuno al proprio posto. Indifferenti le une alle altre. La parentesi di quel viaggio surreale si è chiusa al sorgere del sole. Ognuno scende stringendo i suoi valori, agitato, speranzoso.
La seconda guerra mondiale è appena cominciata.
Ma la guerra, quella finisce, per fortuna, e noi, noi invece restiamo. La guerra non impedisce che la vita continui, una volta che si è finito di combattere.
Quanti dei contadini e dei borghesi che in quella prima notte di guerra hanno mischiato le loro vite ne vedranno la fine? Per quanti la vita continuerà davvero dopo le bombe e gli spari?
Non per l'autrice, Irène Némirovsky, ebrea francese: lei morirà ad Auschwitz.