NOTE DI REGIA
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Alla lettura del romanzo di Jonatan Coe il primo dato che ha stuzzicato la mia fantasia è lo straordinario e sapiente utilizzo dell’intreccio narrativo: in un’epoca di reiterata (e ormai obsoleta) decostruzione delle drammaturgie e delle narrative, la scoperta di un autore in grado di modellare il capitolo a proprio piacimento pur conservandone la natura intrinseca è quantomeno attraente. Per questo il primo desiderio di questa messinscena è di rispettare e, anzi, cavalcare la struttura narrativa del testo di ispirazione, creando un percorso spettacolare che punti alla suspense come elemento di attrazione empatica tra palco e platea. Ma Notturno non è soltanto un thriller dal vivo. Le possibilità di analisi e di indagine offerte da questa drammaturgia sono molteplici. Il racconto di un ragazzo che per amore di una ragazza omosessuale (o presunta tale) decida di cambiare sesso è straziante ma non soltanto; impone alla riflessione ed espone almeno a due interrogativi: quanto un amore, seppur totalmente puro, possa essere abbastanza determinante da causare un cambiamento così radicale della propria vita e quanto invece possa essere un mezzo (e non quindi una causa) per compiere un passo già seminato e radicato nella propria mente; come i problemi e le mancanze di comunicazione spesso ci impediscano di amarci, mancanze causate essenzialmente dalla paura per la perdita ma che non fanno altro che provocare un distacco irrimediabile.
Altro tema fondamentale di analisi è quello del linguaggio: “in questa storia si parlerà di linguaggio, dei tranelli che esso ci tende” esordisce il caustico personaggio dell’analista. In effetti il linguaggio è una delle cause scatenanti della disperazione delle due protagoniste; perché l’utilizzo delle singole parole che organizzano un discorso non è mai casuale e a volte sono piccoli segnali inconsci di un discorso che verte su altri temi e vuole rivelare verità che il linguaggio conscio non avrebbe mai il coraggio di rivelare; e perché alcune (se non parecchie) persone si scontrano quotidianamente con i buchi di comunicazione derivanti dal fatto che il proprio linguaggio espressivo biologico (non sempre verbale) non combacia con quello scelto dalla società in cui vivono, società che però non ammette linguaggi diversi dal proprio.
FILIPPO RENDA
Irene Serini
Archiviato in:Approfondimenti teatrali, XXI IN SCENA