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Sat, 22 Mar 2014 20:42:04 GMT
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IL TRENO COME LUOGO DI COSCIENZA DI SE
Luigi Pirandello scrisse le Novelle per un anno in seguito ad un contratto col Corriere della sera; in realtà egli ne scrisse solo 241 su un totale di 365. Altre 15 furono pubblicate postume. Il treno delle novelle pirandelliane si configura come luogo letterario, dove le fragili e dolenti vite dei protagonisti s’incontrano e si scontrano, in un processo dialettico culminante spesso nell’autocoscienza. Sullo sfondo di sale d’aspetto anonime e grigie, di stazioni desolate e desolanti, prendono corpo le storie personali di personaggi, che, per singolarità e varietà, possono ben rappresentare tutto lo spettro dell’umano vivere.
L’avvento delle ferrovie annunciava la scomparsa graduale di un’epoca, cui ne sarebbe subentrata una nuova, dominata dal ferro e dall’acciaio, dal mito della velocità e dalla ricchezza.
In questo contesto di grandi cambiamenti, non stupisce il fatto che nella sfera letteraria il treno assurga a vero e proprio Personaggio, che si carica di volta in volta di valori positivi e/o negativi. Infatti, ora diviene strumento di dominio dell’uomo sulla natura, simbolo tout-court del progresso, poi strumento alienante, distruttivo, demoniaco, proprio perché espressione di quel particolare sviluppo socio -economico che vedeva l’industria occupare un posto prioritario rispetto all’agricoltura.
Scrittori come Carducci, Dostojevskyj, Tolstoj, Buzzati, tanto per citarne alcuni, hanno avuto un rapporto ambivalente col treno. Nel senso che, oltre ad evidenziarne le peculiarità esistenziali, ne hanno, con largo anticipo, paventato la portata destrutturante nei confronti della tradizione, ponendo inquietanti interrogativi sullo sviluppo tecnologico e sul progresso, di cui il treno, appunto, era inoppugnabile simbolo.
I vari personaggi della novellistica pirandelliana, ancora ignari, affollano turbati e confusi i predellini, si accomodano nelle carrozze anguste come le loro anime e iniziano il viaggio verso luoghi fisici ignoti, come la loro interiore dimensione spirituale: Il treno trascina dietro di sé i vagoni e dentro i vagoni trascina i personaggi delle novelle di Pirandello, ciascuno verso il suo destino umano e narrativo. Come a dire che in questo percorso conoscitivo non esistono differenze sociali, perché l’intero campionario umano è accomunato dal medesimo destino.
Il desiderio dei protagonisti di scappare dalle loro grigie esistenze, li porta spesso a tagliare i legami con la Terra Madre, il che, in alcuni casi, comporta la perdizione; è il caso di Annicchia ne La balia, che, per combattere la povertà, lascia il paese, il suo bimbo neonato e contro il volere della suocera che la maledice. Questa sorta di maledizione sembra colpire da subito la protagonista: il treno da Napoli viaggia in forte ritardo e il datore di lavoro, in stazione, distratto dalle cupe elucubrazioni familiari, finisce col cercare la donna con un’ora di ritardo. La trova “nell’ufficio della dogana, dove si visitano i bagagli, che piangeva seduta sul sacco”. Annicchia è basita, i doganieri non possono darle conforto, perché inadeguati a risolvere il suo problema di donna disorientata, “perduta”, così come è perduta la sua vita precedente. L’ “oggetto – stazione”, dunque, fa da sfondo a questa che potremmo definire l’annullamento della precedente identità a favore di una nuova, che però ha bisogno del pagamento di un simbolico dazio (il commiato da una parte di sé) per essere sdoganata.
Il profilo comprovato di Annicchia, che si rivela superato, nella nuova realtà è costretto a fare i conti con un sé nuovo e discrepante. L’arrivo dell’avvocato Mori rassicura solo in parte la povera donna. Inconsciamente, infatti, lei sente di trovarsi in una realtà che non le appartiene, in cui si sente fuori posto; prova ne è che quando sale in vettura si rannicchia, per occupare il meno spazio possibile. Poi però, sfinita si lascia andare ai suoi pensieri “sentiva soltanto il sollievo d’esser giunta, finalmente; d’aver superato il terrore della traversata sul piroscafo da Palermo a Napoli…” La sensazione di sollievo è dettata dall’aver superato indenne lo Stretto di Messina e quindi di essere sopravvissuta all’acqua. L’acqua come elemento primordiale è tanto simbolo della vita quanto della morte. In questo caso, l’associazione di questo elemento al treno può essere letta e interpretata come la morte della vita precedente e il conseguente brutale trapasso(“lo sgomento della furia del treno”) in un’altra dimensione esistenziale.
Non può essere dimenticato, comunque, che l’ambiente ferroviario fa da sfondo anche a un altro processo di chiarificazione interiore, quello relativo all’avvocato Ennio Mori, che, finora, nell’economia interpretativa, è stato in un certo senso trascurato per fare spazio alla protagonista. Nondimeno, il suo personaggio compare per primo sulla banchina della stazione e, per i comportamenti impazienti che manifesta: “sbuffava […] o si grattava la faccetta ossuta […] o si aggiustava le lenti…”, si propone da subito come una figura molto stressata da conflitti e frustrazioni. In apparenza può sembrare solo infastidito, perché costretto a sbrigare una faccenda (il ricevimento della balia) che per banalità ne sminuisce il ruolo e, di conseguenza, la positiva percezione di sé. In realtà il suo malessere ha radici molto più profonde; perciò, quando apprende del ritardo del treno, e realizza che per il disbrigo dell’incombenza occorre più tempo del previsto, si lascia sfuggire quel “cose da pazzi!”, palese espressione delle sue contrastanti istanze interiori. A questo punto, l’avvocato si vede costretto a cercare in stazione un posto per aspettare, ma i sedili sono tutti occupati. Allora, si allontana per guadagnare un appoggio al muro “sotto l’orologio”, simbolo del tempo che passa, ma che l’avvocato, invece, compresso nelle sue riflessioni, riporta indietro attraverso la rivisitazione lucida e dissacrante del suo matrimonio.
Anche nella novella Donna Mimma è il treno a determinare il cambiamento del destino della protagonista, intimamente radicata in un mondo arcaico e contadino, ove alla mammana si richiedeva non il titolo di studio, ma semplicemente perizia e umanità. In questa realtà ambientale, in cui il tempo sembra essersi fermato, l’orologio ricomincia a ticchettare con l’arrivo della bella e giovane ostetrica, ufficialmente abilitata alla professione, la “piemontesa”. A questo punto, diventa necessario per Donna Mimma prendere quel treno che deve condurla in città, sui banchi di scuola. Con queste premesse “l’intronamento e la vertigine del viaggio in ferrovia, il primo in vita sua” rappresentano nient’altro che la proiezione del disagio psicologico di una donna non più giovane, costretta a interrompere la sua vita abituale per intraprendere un’avventura, scolastica e urbana, che, per profusione d’impegno e gap temporale, non le si attaglia. Risulta singolare che il flash back del viaggio cominci e finisca con l’invocazione a Gesù. In quell’iniziale “Gesù, la ferrovia!”, si coglie l’accostamento del sacro al profano; come se il primo potesse annullare gli effetti destabilizzanti del secondo. Come se la religione, vissuta come elemento di continuità col passato e la tradizione, potesse esorcizzare le incongruenze e le incognite di un presente da cui Donna Mimma vorrebbe fuggire, nel tentativo di recuperare le certezze e la stabilità emotiva precedenti all’arrivo della “piemontesa”. In quest’ottica, il paesaggio che scorre fuori dal finestrino diventa la proiezione dell’ individuale modo di sentire della donna, ossia la percezione che l’ambiente a lei noto si sta dileguando, e con esso la stabilità del suo io più profondo. Ella avverte, seppure indistintamente, che il presente è scompaginato e tumultuoso, (“l’urto violento d’un palo telegrafico; fischi, scossoni”) e che il futuro, ambiguo come quel treno di cui non si intravede la sagoma, dovrà essere affrontato di volta in volta, nelle sue minacciose ed enigmatiche sfaccettature “e di tratto in tratto lo spavento dei ponti e delle gallerie, una dopo l’altra”. Frastornata dal carattere disarmonico del reale, e ancora incapace di realizzare ciò che le sta accadendo, Donna Mimma per non soccombere si aggrappa all’unico punto di riferimento rimastole, la religione “Gesù! Gesù!”.
Il viaggio in treno ha sbalzato la protagonista in una dimensione ambientale e sociale ingannevole e spersonalizzante, dalla quale ella cerca di difendersi, opponendo le sue piccole certezze di paesana. Ma la città, con la sua università, paradossalmente, la impoverisce nelle capacità e la irrigidisce in una “forma” in cui ella stessa non sa riconoscersi (“Tremano, le sue manine, e non vedono più. Il professore ha dato a donna Mimma gli occhiali della scienza, ma le ha fatto perdere, irrimediabilmente, la vista naturale. E che se ne farà domani donna Mimma degli occhiali, se non ci vede più?”). La città, dunque, diventa “simbolo di un sapere arido, non sentito, fatto di formule e parole, contrapposto a un sapere senza formule né nomi, ma cresciuto con germinazione spontanea dal contatto con la vita, da un’esperienza lunga e serena, da un’attenzione semplice e amorosa alle cose”. Di ritorno al paese, la protagonista sarà rifiutata non solo dalle donne, che la percepiscono cambiata dal soggiorno cittadino, ma finanche dai suoi adorati bambini: “No: brutta donna Mimma! Non la vogliamo più”.
Molto più drammatico, invece, risulta il viaggio in treno per Didì,(protagonista della novella La veste lunga), che, col fratello Cocò e il padre, parte da Palermo per raggiungere Zùnica, paesino dell’interno, dove l’aspetta il matrimonio con un uomo vecchio; matrimonio combinato dai suoi congiunti, contro il suo volere, per risolvere i problemi finanziari della famiglia.
Per l’occasione ella ha dovuto dismettere l’abbigliamento abituale da ragazza sedicenne, e indossare “per la prima volta, una veste lunga”, simbolo del passaggio dall’infanzia alla maturità, o per meglio dire, dalla leggerezza innocente all’ obbligo di responsabilità che la vita adulta comporta ed esige. Da quel momento, la “veste lunga” avrebbe coperto, e per sempre, le sue gambette, le stesse che la sera prima Cocò, scherzando, “aveva salutato con ambo le mani”, a suggello della fine di una stagione della vita. Per tutta la notte, combattuta e angustiata, Didì aveva rimuginato su questa svolta esistenziale, di cui ignorava gli esiti, ma di cui, tuttavia, percepiva a istinto la negatività.
Al mattino però, la protagonista sembra aver raggiunto una condizione psicologica di rassegnata accettazione del nuovo ruolo, tant’è che si accomoda sul sedile del vagone ferroviario premurandosi di assumere una postura e un atteggiamento congrui al presente status da signora. A questa sua posa compunta, si contrappongono la postura “col capo abbandonato su la spalliera rossa […] tenendo gli occhi bassi e la sigaretta attaccata al labbro superiore” e il tono canzonatorio del fratello, le cui futili e quasi infantili provocazioni rimandano a una superficiale e vacua visione della vita, priva di ogni forma di sensibilità e, perciò, incapace di percepire i sentimenti altrui.
Intanto il treno va, e, mentre il fratello si assopisce, la ragazza dà inizio a uno scandaglio interiore crudo e doloroso.
Ella comincia a osservare Cocò con gli occhi dell’anima, nel tentativo di far riemergere un passato felice, ma subito capisce che il dolce fratellino dell’infanzia ha lasciato il posto a un uomo cinico e arido, con sul volto i segni del cambiamento: “Le pareva ch’egli fosse come arso, dentro. E quest’arsura interna, di trista febbre, gliela scorgeva negli sguardi, nelle labbra, nell’aridità e nella rossedine della pelle, segnatamente sotto gli occhi”. Allora la ragazza, ricerca il momento in cui ha avuto inizio questa metamorfosi e s’accorge, con orrore, che essa coincide con il periodo in cui Cocò ha indossato i “calzoni lunghi”, vale a dire, con la sua entrata in società. L’aver determinato la congiuntura temporale di quella radicale trasformazione, e, soprattutto, l’aver identificato nella sfera sociale la provenienza dei comportamenti abietti del fratello, produce in Didì, dapprima, sconcerto, poi paura di essere destinata alla stessa sorte. In quel momento, ella avverte il peso della “veste lunga”, simbolo della maturità, sui piedini di fanciulla. Questa innocente sensazione è sintomatica della sua inadeguatezza a entrare nel mondo dei grandi, per cui è meccanico e istintivo per la ragazza cercare con gli occhi il padre, da cui, inconsciamente, si aspetta rassicurazioni e protezione. Ma il padre, seduto dal lato opposto del vagone, attende serio ai suoi documenti di lavoro e non le rivolge neanche uno sguardo. Didì, allora prende atto, forse per la prima volta dalla morte della madre, della sua irreversibile solitudine. Solitudine che in quei tre anni, di mancanza dell’affetto e del supporto materno, aveva tentato inutilmente di affrontare e di arginare da sola, perché privata del sostegno morale degli uomini di casa, dediti alle loro vacue vite. Con gli occhi della memoria, la ragazza recupera mano a mano i ricordi e ne chiarisce il senso e la portata: alla morte della madre aveva fatto seguito un graduale e costante allontanamento del padre e del fratello dalla casa, intesa nella duplice accezione fisica ed emotiva. I due uomini avevano spostato il baricentro della loro vita fuori dalle mura domestiche, lasciandola preda del vuoto e della solitudine. Essi si erano mostrati interessati alla sua vita solo per proporle e imporle il matrimonio combinato e il conseguente viaggio. In un attimo, o forse in un’eternità, tutte le tessere del mosaico si erano ricomposte e Didì si trova nella crudele condizione di dover costatare il grigiore della sua vita, manipolata dal padre avido e interessato, sotto gli occhi indifferenti del fratello.
Intanto, il treno arranca su di una salita e procede lentissimamente “quasi ansimando”, ma in questo ansimare c’è la chiara allusione al doloroso processo di acquisizione di consapevolezza, esperito dalla protagonista, che ormai ha capito il gioco e, rifiutando di assumere la sua parte, si predispone a una lenta e solitaria agonia “per terre desolate, senza un filo d’acqua, senza un ciuffo d’erba, sotto l’azzurro intenso e cupo del cielo” .
In quell’opprimente atmosfera: “Non passava nulla, mai nulla davanti al finestrino della vettura; solo di tanto in tanto, lentissimamente, un palo telegrafico, arido anch’esso, coi quattro fili che s’avvallavano appena”. Ella, tradita dalle menzogne e dall’indifferenza dei suoi affetti più intimi e viscerali, non vede altra soluzione al suo problema se non la morte; cosicché, in un moto lucido e disperato, si avvelena, sottraendo una fialetta di medicinale al padre.
Il viaggio reale tra Palermo e Zùnica, dunque, è diventato viaggio interiore, oltre che promotore di una presa di coscienza della condizione della donna all’interno della famiglia. Famiglia, cellula basilare della società, ove si annidano solitudine e incomunicabilità. Luogo dove, spesso, si consumano vendette e si perpetrano soprusi, come quelli che, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, Strindberg andava rappresentando nel suo teatro. Egli infatti aveva individuato nella famiglia tradizionale un ambito di studio ideale (come già le pièces di Ibsen avevano dimostrato) delle dinamiche in gioco nelle relazioni umane. Circa vent’anni prima delle indagini freudiane, e in modo più intenso rispetto al suo predecessore Ibsen, Strindberg aveva capito che la famiglia – “djävla familjen” (maledetta famiglia), come era solito chiamarla – era indiscutibilmente il luogo privilegiato di dispotismi ed egoismi.
La crisi della famiglia non risparmia, come si evince da questa novella, neanche il nucleo familiare di paese, la cui sacralità, tanto cara a Verga, si frantuma alle lusinghe dell’interesse economico.
La protagonista, apparsa sin dall’inizio come vittima, si riscatta da questo status e, con un atto di volontà, successivo alla presa di coscienza, decide di rendersi artefice del proprio destino; da qui, il suicidio, che va inteso “come la colma concentrazione, di un’inesorabile esperienza”.
Prof.ssa Gina Forgione