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Novità librarie - Marco Damilano: "La Repubblica del selfie" (Dalla meglio gioventù a Matteo Renzi)

Creato il 13 marzo 2015 da Tafanus

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...chi ci governa...

E dal vuoto nacque il piccolo Napoleone. In Italia per i nuovi movimenti non c'è spazio. Lo ha occupato tutto Renzi. Con tanti slogan e una manovra di palazzo. Come racconta Marco Damilano in "La Repubblica del Selfie" (Fonte: l'Espresso)
IL 13 Settembre 2012 siamo in tanti nell'auditorium del Palazzo della Gran Guardia nella magnifica piazza Bra di Verona. Giornalisti, amministratori locali, sindaci. Nessun parlamentare, pochissimi volti conosciuti. In prima fila il portavoce Marco Agnoletti presenta una ragazza bionda e sorridente: «Voi non lo sapete, ma è bravissima. Guiderà lei i comitati di Matteo: l'avvocato Maria Elena Boschi». In platea l'unico noto è il sindaco di Reggio Emilia e presidente dell'Anci Graziano Delrio, e neppure lui si sbilancia: «Sono venuto ad ascoltare Matteo. Per me è fondamentale che la sua sfida si svolga all'interno del Pd».

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È la giornata dell'ingresso in campo. Il sindaco di Firenze Matteo Renzi si candida a premier contro Bersani. Sale sul palco in camicia bianca e cravatta scura, diventerà una divisa, mentre sullo schermo scorrono i frame degli ultimi due decenni: Reagan, Thatcher, Madonna, Carl Lewis e poi Falcone e Borsellino, il primo Mac rudimentale, i dischetti per il computer presto andati in pensione, Steve Jobs... Sotto il podio c'è la scritta: Adesso! Il cuore del renzismo nascente.

Non un'ideologia, nessuna appartenenza. Adesso è l'anno Zero che arriva dopo il disastro. Il prima e il dopo. Il presente che è l'arma letale di Matteo e dei suoi. Non abbiamo nessun passato, per questo ora tocca a noi. Ci siamo anche noi, quelli che non c'erano prima. Quelli che sono cresciuti in venti anni di zero rappresentanza politica e di devastazione della speranza, negli anni del Blocco. La frattura del 2011-2014 è molto più profonda di quella del 1992-1994. Quella rivoluzione era rimasta puramente giudiziaria, e dunque destinata al fallimento.

Negli ultimi anni la rivolta è stata culturale, generazionale. All'inizio la crisi ha spaccato a metà il Paese, quelli che erano dentro, in un sistema di garanzie, di diritti acquisiti, di privilegi, e quelli che erano rimasti fuori. Poi anche gli interni hanno cominciato a perdere sicurezze, si sono indeboliti, spaventati. E tra i due mondi si è aperto un baratro: gli esclusi, sempre di più, e gli inclusi, sempre di meno. L'elettorato cui si rivolge Renzi è l'Italia normale che si vede in sala, un'Italia periferica e un po' incazzata. Un'Italia di giovani outsider, di non iscritti, di non tesserati, di non invitati, di non tutelati. Un'Italia di figli che non conta nulla, tra la crisi economica e le liste bloccate.

Renzi invoca speranza, sogno, desiderio, passione, ma la spinta a candidarsi è più di tutto la terribile accusa rovesciata sulla classe dirigente dell'ultimo quarto di secolo: «Hanno trasformato il futuro in una discarica». Un bersaglio enorme, evocato dal leader quando spiega il significato esatto della parola rottamazione.
Non solo svecchiare i gruppi dirigenti. No, c'è qualcosa di molto più grande da rottamare: un'intera generazione di sinistra, la sua cultura, la sua pretesa di dettare modelli di vita, miti e idoli culturali, il sistema delle idee.
«Dobbiamo rottamare la generazione del Sessantotto che dipinge se stessa come l'unica che ha gli ideali, l'unica Meglio Gioventù che ci sia mai stata. No, ci siamo anche noi»
Ecco fissata una volta per tutte la narrazione della scalata renziana. Non la abbandona neppure quando, cinquecentoventisette giorni dopo, in vestito blu entra nel salone delle feste del Quirinale per il giuramento del suo governo. La sconosciuta Boschi presentata a Verona giura in tailleur cobalto da ministro delle Riforme. Il barbuto Delrio che era mescolato nella platea della Gran Guardia affianca i ministri da sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Cinquecentoventisette giorni per diventare il padrone d'Italia.
L'outsider arriva al potere non con un voto popolare, ma con una manovra di Palazzo. Un tradimento, il brutale assassinio politico del capo del governo Enrico Letta, appena rassicurato.
Dal tweet con l'hashtag #enricostaisereno alla defenestrazione del premier non è passato neppure un mese. Renzi va a comunicare all'inquilino di Palazzo Chigi che il giorno dopo sarà sfiduciato dal suo partito, il Pd, senza neppure un passaggio parlamentare, l'onore delle armi, la possibilità di difendere il suo operato in una sede istituzionale.
L'unico ostacolo che incontra sulla sua strada è una macchina che esce in senso contrario dall'ingresso secondario di Palazzo Chigi: la Smart blu su cui viaggia Renzi guidata dal deputato Ernesto Carbone è costretta a fare retromarcia. Una volta entrati, però, i giochi sono fatti. Il ministro Dario Franceschini, amico di Letta, è già sintonizzato sul nuovo padrone di casa, si fa fotografare accanto alla macchinina parcheggiata nel cortile mentre al piano di sopra si conclude lo sfratto. Rientrerà nel governo Renzi da ministro della Cultura.
Renzi è un politico neppure quarantenne che conquista il potere spostandosi nel vuoto lasciato dal precedente regime, come insegnano i teorici del ramo, per esempio Curzio Malaparte in "Tecnica del colpo di Stato": «La tattica bonapartista non è soltanto un gioco di forza: è soprattutto un gioco di misura e di abilità. Quasi una partita di scacchi, in cui ogni esecutore ha il suo compito preciso e il suo posto assegnato, dove il più lieve errore nella mossa di una pedina può produrre incalcolabili effetti e compromettere l'esito della partita».

Renzi, più ancora di Berlusconi, appare chissà quanto inconsciamente nella storia repubblicana il leader maggiormente vulnerabile alla sindrome napoleonica, intesa come megalomania, rilancio continuo, voglia di vincere sempre, anche quando non è più chiaro esattamente cosa significhi vincere o perdere.
Più che le somiglianze con il protagonista della rupture più fragorosa degli ultimi tre secoli conta però il passaggio epocale in cui si trovano l'intera Europa e l'Italia, con la sua traballante storia nazionale. In cui assemblee parlamentari, Stati nazionali, partiti, corpi intermedi, giornali e media - tutto ciò che era la politica del Novecento - sono un ancien régime destinato a essere spazzato via. Nella sinistra italiana il fantasma dell'uomo solo al comando è stato liquidato come un cedimento al populismo, un male da esorcizzare. Invece, in tutte le società occidentali con l'avanzare della crisi democratica e lo svanire dei partiti cresce la richiesta di una leadership personalizzata.
Succede ovunque. È l'altra faccia della moltitudine, «un insieme di singolarità non rappresentabili», come la definisce Toni Negri. I movimenti senza volto e senza capi, Occupy Wall Street, Anonymous sulla Rete, collettivi e individuali. Eppure anche le formazioni della nuova sinistra radicale europea hanno sentito il bisogno di darsi un capo. In Grecia l'esperimento Syriza è stato fondato da Alexis Tsipras, un federatore delle vecchie sigle della sinistra che appartiene alla generazione dei figli, classe 1974, chiamato a ricostruire sulle macerie del Partenone, arrivato a sfiorare la maggioranza assoluta dei seggi nel Parlamento greco alle elezioni del gennaio 2015 portando in sei anni il suo partito dal 4 al 36 per cento. In Spagna il movimento Podemos ha rapidamente chiuso la fase anarchica e movimentista e dopo il successo alle elezioni europee del 2014 si è dato una dirigenza votata dalla Rete e fondata sulla leadership indiscussa di un personaggio carismatico, Pablo Iglesias, nato nel 1978.
Syriza e Podemos sono i Partiti della Crisi, nell'Europa del Sud, nati e cresciuti tra la recessione e la disoccupazione e il fallimento delle politiche di austerità indifferenti allo Stato sociale, per raccogliere la rabbia contro le generazioni precedenti. Il loro fratello italiano naturale era il Movimento 5 Stelle. Ma a raccogliere i vantaggi del terremoto elettorale del 2013 che Grillo non è stato in grado di sfruttare è il coetaneo fiorentino di Tsipras e Iglesias. Con la differenza che Renzi non è passato dalle elezioni per conquistare la guida del governo. E non ha dato vita a un nuovo partito, gli è bastato occupare e svuotare il guscio di un partito che già esisteva, il Pd. Non c'è in Italia il Partito della Crisi. C'è il Leader della Crisi che avanza tra le macerie. Che fa coincidere il partito con se stesso. È il Populista che costruisce il suo Popolo, non viceversa.
Marco Damilano

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