Ultimamente mi è capitato di leggere libri di racconti che vengono presentati come romanzi con la scusa che i racconti sono “legati tra loro da un filo sottile”, il timore è che se li presentassero per quello che sono, cioè per dei racconti, i lettori ne risulterebbero spaventati. Nel mondo dell’editoria dire “racconti” è come in politica pronunciare la parola “patrimoniale”. Perciò ci si attacca a quel filo sottile sperando che il lettore non si scoraggi dalla esasperante brevità delle storie. Ciò che risulta poco chiaro è che anche in una raccolta di racconti “puri” scritti da un qualsiasi autore esiste un filo sottile che unisce le storie, anche nel caso in cui le storie narrate non abbiano nulla in comune l’una con l’altra, né per ambientazione né per personaggi o temi ricorrenti, se non altro perché a scriverle è la stessa mano. La questione è che il racconto rilascia attorno a sé una nube pulviscolare molto più estesa di quanto non faccia il romanzo, il racconto agisce sul sottaciuto più che sul detto, e questa è la forza che lo rende facile alla connessione.
Le cose che più mi attraggono sono quelle che generalmente tendono a passare inosservate. Una di queste, per esempio, è la musica di sottofondo che c’è nei supermercati. Una volta mi è stato spiegato che la musica abbinata alle attività commerciali non è musica casuale, è il risultato di una scelta precisa volta a mettere il consumatore in uno stato psicologico ideale per svolgere i propri acquisti. Allora ho pensato che c’è qualcuno che di mestiere fa questo, sceglie la musica da mandare in un supermercato, e mi sono detto che quel qualcuno è pagato per sapere tutto di noi, per capire chi siamo, per imporci stati d’animo e suggestioni, e mi sono detto che mentre stiamo lì, con gli occhi bassi, a scegliere le pere migliori, quella è l’unica persona al mondo che non possiamo contraddire.