Antonio Liviero e la sua rubrica “Mischia aperta” per Il Gazzettino
Ci risiamo col problema dell’apertura. E’ bastata la sconfitta in Argentina contro i giovani Pumas perché si levasse il grido di dolore di Brunel sugli errori dell’Italia nelle scelte di gioco, specie al piede. Critiche rivolte a Kris Burton (poi riscattatosi col Canada) che va per i 32 anni ed è di formazione australiana. E i registi di scuola italica? Brunel dice che tutti sono in affanno all’apertura tranne gli Ali Blacks fortunati ad avere Carter. È sicuramente vero che il mestiere del numero dieci attraversa una profonda crisi di identità, tuttavia la Nuova Zelanda dà Evans agli Harlequins campioni d’Inghilterra e McAlister al Tolosa campione di Francia. E prima di Carter c’erano Mehrtens, Spencer e Brown. Via Giteau, gli australiani hanno Cooper e Barnes. Gli inglesi salutato Wilkinson possono scegliere tra Hodgson, Flood e Farrell, con Ford in arrivo e Cipriani in esilio. Il Galles ha Priestland, Hook e Biggar. L’Irlanda conta su O’Gara e Sexton. Intanto in Celtic si sono rivelati ventenni come lo scozzese Léonard e il gallese Morgan. Solo la Francia sembra davvero tormentata dal problema del numero dieci: in 17 anni ne sono passati ben 22 alla guida dei Galletti. Certo nulla di paragonabile alla carestia italiana, perché i transalpini hanno pur sempre Trinh-Duc, Beauxis, Skrela, Michalak e, alla bisogna, Parra. Solo che nessuno di loro ha mai pienamente convinto, anche perché in Francia il padrone del gioco è spesso il mediano di mischia.
Inoltre, le aperture che arrivano in nazionale devono fare i conti col culto del “french flair” che ai tempi dei Rambo e dei Godzilla non è rugby, è occasionale poesia e divertimento puro. Del resto i francesi sono fatti cosi: non gli basta vincere, per essere contenti devono
meravigliare col bel gioco. Non a caso sono l’unica delle grandi a non aver ancora vinto la Coppa del Mondo. Sotto accusa in Francia è finito il metodo globale, caro a Pierre Villepreux e alla direzione tecnica nazionale, a cui anche l’Italia si è ispirata, e continua a ispirarsi,
pur se in maniera intermittente e confusa. Ha spiegato Fabien Galthié ex mediano di mischia dei Bleus e ora allenatore a Montpellier, che la libertà d’iniziativa tipica del metodo globale è una risorsa per il rugby francese, «ma crea problemi alle aperture, che fanno fatica a imporsi». Il sistema anglosassone al contrario ha un sistema di gioco programmato su almeno 4 fasi, all’interno delle quali un’apertura ha più certezze e punti di riferimento.
Inoltre può godere della fiducia necessaria per emergere nella media durata. Una voce,
quella di Galthié tutt’altro che isolata, relativa a una questione che investe anche la formazione dei giovani.
I francesi si lamentano, un po’ come in Italia, delle carenze nei fondamentali dei ragazzi che approdano all’alto livello, in particolare per gioco al piede, difesa e qualità del passaggio da ambo i lati. «E a partire dai 16 anni che il lavoro tecnico e atletico deve cominciare a
dare i suoi frutti non a 24» ha detto Galthié. Che ci sia bisogno di rivedere qualcosa
anche in Italia?