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Numero 194, l’erede al trono – di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Creato il 27 gennaio 2012 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Numero 194, l’erede al trono

di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

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Si era liberato. Era da tempo che non la faceva. Quando mangi sì e no due volte nell’arco d’una settimana l’intestino al massimo ti si gonfia d’aria.

Aveva sulle spalle almeno quaranta anni di vagabondaggi. Non aveva voluto stare nella società e anche una volta fuori, riconosciutogli dalla società perbene lo status di clochard, non se li era filati quelli come lui; non nutriva alcuna fiducia, l’uomo gli era nemico in tutte le sue possibili sfumature sociali. Per Berto un figlio di puttana è uguale dovunque, in uno schifo di casa popolare o ai Parioli. Cagare nel Po o nel Tevere esponeva sempre agli stessi rischi. Ne aveva visti tanti cadere a fondo col culo nudo. Ci vuol poco: uno bello, rasato di fresco, ti passa accanto e ti spinge giù. Tu ti reggi la pancia e affondi per sempre. Sei dita di lama nelle budella non sono uno scherzo. Quand’era più giovane a momenti lo facevano fuori proprio così. No, non è un bel modo di presentarsi al Creatore con la pancia bucata, le mutande calate e le chiappe sporche di merda. Quello è un gran figlio di puttana di sicuro, non ci pensa su due volte e ti sbatte ad arrostirti il culo per l’eternità. Da che mondo è mondo Dio ha sempre guardato più alle apparenze che alla sostanza.

Quand’era poco più d’un soldo di cacio, non di rado i suoi amavano lasciarlo dalla nonna, una vecchia oltremodo truccata che passava le sue giornate immersa in una nuvola di fumo a giocare a carte con le compagne, brutte quanto lei se non di più. I suoi se l’erano presa con comodo, non lo avevano voluto ma era arrivato: a forza di scopare lei c’era rimasta. I suoi non avevano mai fatto granché per nascondergli la verità: la madre non faceva che dargli pesanti scappellotti sulla testa con la mano sovraccarica di anelli. Gliele dava perché era un bambino, non per altro. Poi un giorno aveva scoperto che era un ragazzo e che i primi peli sul mento avevano cominciato a prudergli. Nel corso degli anni la donna che lo aveva messo al mondo non era cambiata: Berto l’aveva vista più volte prendersi in culo o in bocca il cazzo di suo padre, e non solo. Quella donna non poteva vivere senza uno di quei cosi dentro: in bocca in culo nella figa.
Gl’era venuto naturale spararle un pugno dritto sui denti, quando lei gl’aveva rifilato l’ennesimo schiaffone con quella sua mano inanellata. La donna era andata giù secca, senza un lamento. Le aveva spezzato due incisivi: la bocca aveva fatto presto a riempirsi di sangue. Era rimasta giù per un buon minuto, non incredula né spaventata: pareva non avesse atteso altro da quando lui era entrato per un suo dannato sbaglio scopereccio nella sua vita. Distesa sul pavimento gl’aveva allargato le gambe davanti, giusto una fessura perché lui vedesse bene che non aveva niente sotto. Berto gliela vide. Provò più schifo che orrore di fronte alla figa di sua madre che gli si offriva. Non le disse neanche che era una puttana. Non si sprecò di sputarle in faccia come avrebbe meritato. Le diede invece le spalle, mentre lei gli gridava contro che non era un vero uomo. Lui aprì la porta di casa ed uscì. Per sempre.

Passavo ch’era mattina fatta. Il sole pioveva a picco sulle teste della gente. Tutti avevano una fretta del diavolo. Tiravano avanti senza guardare in faccia nessuno. Un maghrebino stava montando la sua bancarella: già si potevano vedere diversi ninnoli disposti su di un panno di velluto amaranto. Falsi, made in China. Ma se aveste chiesto al venditore, questi vi avrebbe risposto che erano originali, fatti in Africa da poveri maghrebini e che lui in Italia cercava di piazzarli per mandare poi i soldi alla sua famiglia.
I negozi non avevano ancora tirato su le saracinesche. Troppo presto, non prima delle 9 e 30. Ai bordi delle strade solo un fioraio e il vecchio maghrebino, un tunisino a giudicare da com’era conciato. Uomini e donne correvano sotto i portici, molti con l’orecchio incollato al cellulare, tantissimi con le cuffie dell’iPod.
Il sole si ritagliava il suo spazio sotto i portici, su Piazza Castello al di là di Via Roma scomparendo dietro la Cappella del Guarini, andata a fuoco nella notte tra l’11 e il 12 aprile del 1997 e mai rimessa in sesto. La Sindone i pompieri la tirarono fuori, lasciarono invece che la Cappella venisse divorata dalle fiamme.
Lui stava a chiappe scoperte, i pantaloni d’un brutto color verde cachi calati sulle ginocchia. Cagava alla turca proprio davanti alla serranda ancora abbassata di quello che doveva essere un negozio di pelletteria che un portamonete te lo fa pagare assai più caro di trenta danari, poco ma sicuro. Calvo, tarchiato, con una lunga barba giallognola e gli occhi rossi di sonno e di barbera, sorrideva mentre sganciava stronzi dal culo: pareva una fucina, venivano giù ch’era una bellezza, da non crederci. Non erano grossi, ma sostanziosi sì. La gente gli sfilava davanti, manco si accorgeva di lui. Io ero il solo che gli prestava attenzione. Ad un certo punto mi regalò un sorriso grommoso. Nei suoi occhi rossi come il culo dell’inferno, non c’era rimprovero né curiosità per me, uno sconosciuto che s’impicciava di lui che cagava davanti a uno dei negozi più in di Torino. Aveva già montato su un castello fumante non da poco: un alano non avrebbe potuto far più danno. Pensai che doveva essere incazzato nero e che se l’era tenuta in corpo per una lunga pezza, non era altrimenti spiegabile come un clochard potesse sparare così tanti stronzi. Mentr’ero impegnato in queste elucubrazioni, lui s’era già messo al lavoro per pulirsi: da un free press strappava fogli e se li passava fra le natiche, poi li lasciava liberi… ci pensava il vento a spazzarli via, confondendoli insieme a tanta altra immondizia. Mi guardò con astio e mi fece vedere che si stava pulendo il culo; che non stava facendo nulla di male; che non glielo poteva impedire nessuno, o ero io uno di quegli stronzi col coltello in mano? Sulla sua faccia barbuta fanno capolino rabbia e paura, compagne vecchie più del loro proprietario. Il sorriso che m’aveva donato pochi istanti prima non c’era più e non ci sarebbe stato più per me. Nella sua testa doveva esser scattata la molla che se stavo a fissarlo non dovevo essere normale. Non sarebbe comunque valso a nulla dirgli a chiare lettere che non ero quello che lui pensava, non mi avrebbe creduto. Con un altro foglio di giornale si raschiò il sedere ben bene e me lo mostrò avanzando d’un passo, per farmi capire che se fosse stato necessario non avrebbe esitato a trascinarsi fino a dov’ero io impalato e a ficcarmelo in bocca.
Venne fuori qualcosa, una musica. La F. stava aprendo e il principe Emanuele Filiberto di Sanremo sparava “Io credo nella mia cultura e nella mia religione,/ per questo io non ho paura, di esprimere la mia opinione./ Io sento battere più forte, il cuore di un’Italia sola,/ che oggi più serenamente, si specchia in tutta la sua storia…”. Non riuscii a trattenermi, scoppiai a ridere, in maniera esagerata. La mia risata, cavernosa, par strano a dirsi, attirò l’attenzione dei passanti: colletti bianchi e donne bellissime e impossibili su tacchi alti babilonici si voltarono a guardarmi, a mormorare paroline incomprensibili, sicuramente di rimprovero senza però accorgersi del clochard ch’era ancora a braghe calate con i fogli del free press sporchi di merda strappati dal vento.

Tirai dritto. Il principe di Sanremo continuava a evacuare dalle porte oramai completamente aperte della F. O il disco s’era incantato o era una mossa studiata quella sconcezza, Italia amore mio. Il vecchio barbone grugnì. Mi girai verso di lui un’ultima volta: non l’accenno d’un sorriso, solo una bocca di denti e saliva schiumosa. Avesse potuto con quegl’occhi mi avrebbe trafitto a morte. “Più animale che uomo”, pensai, “per questo meriti rispetto, solo per questo”.

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