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Numero chiuso? Nemmeno per sogno

Creato il 13 maggio 2015 da Propostalavoro @propostalavoro

Numero chiuso? Nemmeno per sogno

Secondo alcuni critici, nell'altricolo «Università, dove sei?» è stata trascurata un'idea che potrebbe risolvere il problema della disoccupazione tra i giovani laureatitutte le facoltà universitarie dovrebbero essere a numero chiuso, per fare in modo che il numero dei laureati e quello dei posti di lavoro per loro disponibili siano in perfetta parità. Questa concezione parte dal preussposto che il mismatch domanda/offerta sia causato da un eccesso di offerta di lavoro: in Italia i laureati sono troppi. Senza mezzi termini, questa idea è da scartare.

Numero chiuso per tutti allora? No, numero chiuso per nessuno. È un fallimento per l'intero sistema dell'istruzione (dal ministero che stila i programmi ai professori che li applicano) la disoccupazione di giovani diplomati o addirittura laureati. Stiamo dicendo che chi esce dall'università, 5 anni di studio dopo la maturità, non è ancora pronto o (peggio) è del tutto fuori luogo sul mercato. Il titolo di studio dovrebbe essere una garanzia di occupabilità a prescindere. Dovrebbe voler dire che chi ha in mano quel titolo non solo è pronto per, ma è anche ambito dal mercato del lavoro. Se così non fosse, è sicuramente il valutatore/certificatore ad aver sbagliato qualcosa.

Con le dovute proporzioni, facciamo l'esempio delle automobili usate. Chi vende l'auto usata e chi la compra sono due persone con un'aspettativa diametralmente opposta dell'oggetto della compravendita. Il primo spera di fare un buon prezzo perché sa di aver messo in vendita una buona auto, mentre il secondo, invece, non sa se la macchina sia in buone condizioni o meno e, nel dubbio, diffida. Rischiano di perderci entrambi, per cui un'auto da 10.000 euro viene venduta a 8.000 per vincere le resistenze del compratore – o non viene venduta affatto. Ecco allora che si fa ricorso a un intermediario, di cui il compratore si fida. Ma cosa succede quando gli intermediari si moltiplicano?

Succede come è successo alle università: alcune mantengono un nome, altre no. Euppure, il "nome" non dice nulla della capacità dell'università, cioè saper insegnare e garantire la preparazione dei suoi laureati. Capacità che, è palese, non ha nulla a che vedere con il numero chiuso.

Numero chiuso? Nemmeno per sogno
Occupazione giovanile in Italia dal 2007 al 2014. L’area tratteggiata in rosso indica i posti di lavoro persi – probabilmente per sempre.

È comprensibile il numero chiuso in alcune facoltà tecniche: se i laboratori ospitano solo 1.000 studenti, anche a turno, non possono esserci 2.000 iscritti. Ma allora, perché chiedere il numero chiuso per tutti e non di moltiplicare gli spazi? Questa contraddizione è solo una tra le tante: un'altra è quella di pensare che un numero chiuso aiuti i laureati a trovare lavoro. Vero solo in parte. A meno di non avere la certezza da parte del mercato (mercato, non aziende, perché diventare liberi professionisti dopo la laurea è un'esito tutt'altro che marginale) che un iscritto nel 2009 sia occupabile esattamente nel 2013, allora ci sarà sempre qualcuno deluso: il mercato cambia a velocità impressionante, e i 3 anni di una laurea breve sono un'eternità. È impossibile che un test di ingresso dica che un giovane entrato nel 2007 troverà lavoro una volta uscito nel 2012. Confrontare i tassi di occupazione giovanile 2007 e 2010 per credere – 562.000 posti di lavoro evaporati per sempre. E figuriamoci i 5 anni di una laurea magistrale o specialistica – l'evaporazione, al 2012, sale a 758.000 e non si è ancora arrestata. L'università è un luogo in cui si impara, un test non può togliere questo diritto.

No, all'università si deve chiedere altro dallo stringere le maglie. Le deve, anzi, allargare. Deve dare a tutti la possibilità di raggiungere l'eccellenza, e, una volta raggiunta, che questa sia spendibile. Altro che numero chiuso! Ridicolo poi paralre di eccesso di concorrenza…credevo di essere in Europa. Ecco allora alcune ulteriori proposte:

  • L'università, ogni facoltà, deve insegnare ai giovani come diventare liberi professionisti, in modo che possano trovare posto nel mercato del lavoro autonomo sia in teoria (mentalità imprenditoriale, orientamento permanente, placement…) che in pratica (gestire fatture, rapporti con altri professionisti, contabilità…);
  • L'università deve insistere perché, anche laddove ci siano difficoltà tecniche, i numeri degli allievi ospitabili possano crescere di anno in anno, promuovendo il diritto allo studio;
  • L'università deve promuovere la ricerca e l'integrazione col mondo circostante (la così detta "Terza Missione"), in modo da essere un attore della vita sociale e non una torre d'avorio di studenti e professori.

L'università deve cambiare. Non ha più scuse. Basta parlare di opportunità. L'università deve tornare a dare certezze.

Simone Caroli


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