DARE UNA MANO
La vita era cambiata in meno di due giorni: domenica mattina Eugenio aveva visto sul giornale il suo nome (in realtà un nome d’arte) accanto al titolo del suo ultimo libro. Niente di speciale, direte. Oppure: embè? O anche: e sticazzi? Ma si dava il caso che nome e titolo si trovassero in un posticino abbastanza particolare: il gradino più alto nelle classifiche nazionali di vendita. E così Eugenio, dopo aver sorseggiato un secondo caffè nel suo silenzioso appartamento da single, aveva passato un bel paio d’ore a bearsi e a gongolare. Anche se il fatto del nome d’arte, a ben guardare, gli levava nove decimi di soddisfazione: nessun cono-scente che potesse aprire il giornale e capire che si trattava di lui, e schiattare di rabbia. Poi, nel primo pomeriggio di lunedì, la firma su quell’incredibile contratto. E quell’assegno a sei zeri (li aveva contati e ricontati: erano proprio sei!). E non era che l’anticipo. Per due nuovi titoli della fortunata collana “Erotica Cul In Aria”.Dopo una vita passata a sentirsi in credito, adesso Eugenio era decisamente in debito. Doveva a tutti i costi dare una mano a qualcuno. Questione di karma.
Gli venne così in mente quel compagno di liceo – un anno meno di lui – dal nome problematico: Leonello Stanfredini Smith. A quindicianni Leonello Stanfredini Smith scriveva racconti deliziosi, stupefacenti. Erano arrivati anche dei piccoli premi, e un’effimera gloria da giovane promessa distrettuale. Dopo il liceo si persero di vista. Eugenio aveva poi rincontrato per caso Leonello a dieci anni dal diploma. Lavorava alla cassa di un supermarket. Eugenio si era preoccupato per lui. Leonello Stanfre-dini Smith lo aveva rassicurato, affermando che era solo un impiego momentaneo per pagarsi gli studi. E che stava dietro a un romanzo divertentissimo e geniale. Presto avrebbe sentito parlare di lui! La preoccupazione sfumò in invidia: Leonello sembrava avere grandi prospettive. Eugenio, in quel momento, ancora no.
Invece passarono altri vent’anni, e non successe proprio nulla. Ma questo non significava che il romanzo di Leonello non avesse valore. Ormai ne sapeva ben più di qualcosa, Eugenio, del sistema cul-turale italiota. Quattro bei romanzi e due raccolte umoristiche senza mai arrivare alle mille copie, la sopravvivenza solo grazie all’insegnamento (da precario sottopagato e osteggiato dal bigotto genitorame, a causa dei suoi metodi per nulla ortodossi). E poi, lo straripante successo del suo libro peggiore, di quella sua vergo-gnosa troiata per imbecilli, Gusta la foca in 50 ricette, che lo aveva spinto a nascondersi dietro lo pseudonimo di Petunia Mostarda, e a spedire un’impostora di attrice porno malmostosa a fare apparizioni televisive in vece sua. Sì: se Leonello meritava una mano, Eugenio gliel’avrebbe data. Bisognava scovarlo.
Sugli elenchi telefonici non compariva. Se provava a digitare Leonello Stanfredini sui motori di ricerca, il motore infastidito e sgarbato gli rispondeva che forse stava cercando Lionello Manfredini, e che, se si accontentava, di quelli ne avrebbe trovati un paio su qualche social. Se a Stanfredini si azzardava ad aggiungere Smith, il motore lo prendeva proprio a pernacchie, o minacciava di ingrippargli l’hard disk. Provò allora a giocarsi un’ultima disperata carta: la segreteria del vecchio liceo. Magari gli avrebbero fornito delle tracce o, se non l’attuale indirizzo di Leonello, almeno quello di qualche ex compagno di classe di Stanfredini Smith. Andò assai meglio: la segretaria dopo tutti quegli anni era la stessa, ed era stata una vicina di casa di Leonello. Lui si era trasferito da un pezzo, dopo la morte dei genitori. Ma, in cambio di un autografo sul vecchio romanzo di Eugenio, Solo quattro in motoretta, per il quale si complimentò commossa (aggiungendo che era uno scandalo che non avessero successo i veri scrittori, invece di quella puttana di Petunia Mostarda), accettò di fornirgli il nuovo recapito. Quando si dice la fortuna.
Non vi erano stati ulteriori trasferimenti. Leonello Stanfredini Smith abitava tutto solo, in fondo a una strada senza uscita e poco illuminata, al primo piano di una grigia catapecchia fatiscente – scale rotte e balcone pericolante – di quelle in cui oggi non accettano di stabilirsi nemmeno gli immigrati dell’ultima ondata. Eugenio lo trovò semiubriaco, che sguazzava nel sudiciume. Leonello lo riconobbe a stento. Eugenio cercò di venire al sodo il più in fretta possibile, perché vederlo così lo faceva star male, ed essere solo con lui era pure vagamente inquietante, rabbrividente. Ma al tempo stesso, capiva che quello era il modo in cui, con meno fortuna, avrebbe potuto già da tempo esser ridotto pure lui, in un paese sottosviluppato, stupido e mafioso che spernacchia gli artisti e idolatra le mezzeseghe (o chi è abbastanza furbo da fingere di esserlo). E ciò lo rese ancor più bendisposto e solidale. Quando Eugenio accennò al manoscritto, Leonello Stanfredini Smith si illuminò in un modo che Eugenio trovò commovente. Disse che doveva esserci ancora, da qualche parte. Ma quando poi si mise a cercare non dentro cassetti o su scaffali di libri, ma in posti come il frigorifero, la credenza di cucina, il bauletto della biancheria sporca, Eugenio cominciò a pensare che fosse pazzo, e che non ci fosse mai stato nessun romanzo. Invece alla fine lo trovò, dentro una cartelletta rossa appoggiata nella vasca da bagno incrostata di calcare, accanto a un reggiseno da mare e a un pallone a spicchi, e a un paio di scopini per il cesso incrociati a x, sotto lo sgocciolio di un rubinetto che perdeva. Leonello Stanfredini Smith affidò fiducioso la sua umidiccia creatura all’amico che aveva fatto strada. Eugenio scostò l’elastico madido e aprì, giusto per dare un’occhiata. Vide che il titolo era L’ululato spettrale del topo.
Eugenio avrebbe tanto voluto poter dare una mano, a quello sfortunato fratello d’arte. Del resto, se in quel romanzo di cartapesta avesse ritrovato anche solo un quarto del talento dei vecchi racconti, non ci sarebbero stati grandi problemi. L’avrebbe piazzato in un minuto presso qualsiasi buon editore. Ma con lui, uscendo dalla sua stamberga, volle in ogni caso essere chiaro: quelle pagine, dopo averle asciugate, avrebbero dovuto colpirlo, avrebbero dovuto rivelarsi originali e perfette e divertenti. Dovevano essere opera di un vero scrittore. Voleva aiutarlo, ma Eugenio, ci tenne a precisarlo, non era uno di quegli uomini schifosi che, usando la loro influenza al servizio del Male o della propria vanagloria, permettono agli amici mediocri di farsi largo a discapito di chi più merita. Se non gli fosse piaciuto, se non lo avesse convinto, non se ne sarebbe fatto nulla. Leonello sembrò capire. Sembrò d’accordo.
A Eugenio pareva una pura formalità. Aveva così tanta fiducia in Leonello, e nella propria intuizione filantropica (non c’erano stati altri candidati, aveva subito pensato di dare una mano a lui, solo a lui, a colpo sicuro) che sulle prime, a dispetto delle nobili e scrupolose parole rivolte all’amico, fu addirittura tentato di girare il plico al suo editore senza neppure esaminarlo, aggiungendovi come unica nota: Pubblicalo!Invece lo lesse. E, con somma sorpresa e doloroso rammarico, Eugenio trovò quelle pagine illeggibili. Purtroppo, L’ululato spettrale del topo era una cosa brutta. Proprio una roba bruttissima. La scrittura era goffa. Le idee imbarazzanti. La storia ritrita: sembrava ricopiata da certi romanzetti esaltati dalla critica, e già pessimi di loro, senza bisogno che qualcuno, maldestramente, li copiasse, per allungare l’italica saga della merda senza sugo. Sbatté con furia quel disgustoso scartafaccio sul tavolino che stava di fianco alla poltrona di lettura, spaventando molto il gatto che ronfava acciambellato sul suo cuscino preferito, sopra un basso sgabello accostato al calorifero. Il gatto lo guardò seccato ma non miagolò: emise invece un tortorìo sommesso che sapeva tanto di vaffanculo, dài valà.Eugenio maledì se stesso. Perché si era andato a cercar rogne, invece di godersi soldi e successo tardivamente raggiunti?
Tornò due volte alla stamberga di Leonello Stanfredini Smith, ma senza trovarlo. E numeri di telefono non aveva voluto o potuto dargliene. Allora lasciò lì la cartelletta vicino alla porta, con davanti una busta in bella evidenza. Nella busta una breve lettera. Gli spiegava il perché e il percome, e si scusava per averlo disturbato e illuso. Si offriva anche, se la cosa non lo avesse offeso, di dargli un po’ di soldi senza obbligo di restituzione.
L’ultima scena vede inaspettatamente Eugenio tumefatto e incate-nato al proprio letto. Sopra di lui, di spalle per chi spiasse dalla porta (ma purtroppo per Eugenio a tiro d’occhio e di voce non c’è proprio nessuno), la sagoma di Leonello Stanfredini Smith. Brandisce una mannaia. Urla qualcosa. Il qualcosa che urla è: “Credi che non lo sappia com’è andata veramente? Lo hai fatto per rubarmi l’idea. Bastardo!”. L’ironia – c’è sempre un’ironia – è che la primissima fra le molte cose che verranno staccate con quell’arma da taglio sarà una mano.
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