L’articolo 12-10-2015 di Cristina Sunna
New forms of employment è il titolo di un rapporto di ricerca della European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, realizzato per lo European Monitoring Centre on change (EMCC) e pubblicato a Lussemburgo nel marzo 2015. Lo studio, condotto a partire dal 2000, si è posto l’obiettivo di indagare e classificare nuove forme di occupazione nel mondo del lavoro dei vari Paesi europei, fondamentalmente non basate sul contratto di lavoro standard in modalità subordinata del tipo a tempo indeterminato o determinato, e del tipo full-time o part-time.
Il Report spazia nell’approfondimento dei caratteri e delle modalità con cui i rapporti di lavoro vengono variamente declinati all’interno del mercato, e va alla ricerca di una reale corrispondenza tra le esigenze della produzione di beni e servizi, sempre più eterei, e la tipizzazione di mansioni, l’individuazione della retribuzione equa, la definizione di uno standard minimo di tutela sociale. Invero, le esigenze della produzione globale, da un lato, e l’utilizzo delle tecnologie info-telematiche, dall’altro, sfidano in tutte le direzioni possibili le maglie degli assetti contrattuali esistenti. Ciò impone la necessità di andare oltre il tradizionale modello lavorativo fondato su un contratto con due sottoscrittori di obblighi reciproci, un orario di lavoro, un luogo e un oggetto (il mansionario, se vogliamo). A ben vedere, si tratta di elementi ampiamente superati da esperienze nuove e diverse di produzione di servizi: il rapporto giuridico fondato sullo scambio tra lavoro e retribuzione esiste, ma è basato su elementi come il risultato, il raggiungimento di precisi obiettivi, la mera disponibilità a lavorare, la mobilità, la flessibilità oraria, la collaborazione in gruppi di lavoratori o per gruppi di datori di lavoro, il pagamento attraverso benefit e via dicendo.
La ricerca fornisce un contributo molto utile in sede di aggiornamento su tutto questo e conclude dicendo che “è necessario istituire reti di sicurezza per alcune delle nuove forme di occupazione, nella fattispecie per il lavoro occasionale, ma in parte anche per il telelavoro mobile, svolto tramite dispositivi TIC, e per il lavoro collettivo.” L’analisi effettuata, dice ancora il Rapporto, fa emergere “la necessità di trovare un equilibrio tra la protezione dei lavoratori e l’esigenza di fare in modo che per i datori di lavoro sia semplice utilizzare queste nuove forme occupazionali.”
Ebbene, a mio avviso, è proprio il tema accennato in conclusione che costituisce la questione fondamentale della futura crescita economica in termini di benessere e coesione sociale.
In sostanza, a fronte del rapido e frastagliato aumento delle tipologie contrattuali e delle forme stesse di lavoro, non può dirsi altrettanto rapida, variegata e condivisa l’elaborazione di nuovi tipi di rapporti giuridici previdenziali in grado di riparametrare le contribuzioni e perequare le tutele. Il fatto che si proceda con le riforme del lavoro senza far tenere il ritmo al sistema di sicurezza sociale rappresenta una scarsa visione del futuro, costituisce un limite per la diffusione di talune forme contrattuali che invece potrebbero meglio rispondere alle esigenze dei datori di lavoro e degli stessi mercati, ma soprattutto crea uno svantaggio proporzionalmente superiore nei confronti delle donne.
Il lavoro delle donne, infatti, che potrebbe trovare nelle nuove forme di lavoro una modalità molto congeniale per far fronte a esigenze di flessibilità e conciliazione dei tempi, a causa della mancanza di uno statuto protettivo appositamente pensato, rischia di essere particolarmente marginalizzato. In definitiva, sarebbe altrettanto utile e opportuno cominciare a riflettere su un mix di tutele sociali innovative, fatte di servizi e contributi obbligatori, anche una tantum, da versare in fondi dedicati, da scambiare con lavoro non standard insieme alla retribuzione, ma in grado di garantire la tutela della maternità sempre e comunque e una vecchiaia almeno dignitosa per tutti.