Guardare una buccia d'arancia, del mais, degli aghi di pino, un fusto di canna comune. Insomma, una cosiddetta "biomassa", meglio se prodotto di scarto.
E vederci un'automobile, con la carrozzeria in materia plastica avanzata, i tessuti per gli interni, gli airbag e il carburante che la alimenta. Tutto, tranne il motore. È quello che potrebbe succedere in un futuro neanche troppo remoto grazie alle cosiddette bioraffinerie, frontiera di quell'industria che cerca di affrancarsi dalla "schiavitù" del petrolio.
Chimica "verde". Cibo, ma anche materiali plastici, solventi, medicinali, fertilizzanti, prodotti energetici e combustibili quali bioetanolo (già utilizzabile dalle raffinerie miscelato al 5% nelle benzine), butanolo, biodiesel. Sono solo una parte dei prodotti che vengono prodotti dalle bioraffinerie. Alla base del processo ci sono le biomasse o le loro componenti (ad esempio la cellulosa della canna, o l'amido del mais), magari "digerite" o lavorate da funghi e batteri. Sarà abbastanza per pensionare il petrolio? C'è chi ne è convinto. E sta già iniettando miliardi nel settore, come moltissime compagnie petrolifere e multinazionali chimiche. Tanto che uno studio Pike Research prevede che tra il 2012 e il 2022 le bioraffinerie saranno in grado di attirare investimenti per 170 miliardi di dollari.
La ricerca a Milano. All'Università degli Studi di Milano-Bicocca, un pugno di metri quadri ospita il Biotechnicum, un laboratorio avanzatissimo coordinato da Danilo Porro, ordinario di Chimica e Biotecnologia delle Fermentazioni. "Il petrolio non sta finendo - spiega il professore - La raffineria standard va superata non per necessità, ma per opportunità: è un processo non più sostenibile". Al Biotechnicum sono concentrate strumentazioni per quasi 2 milioni di euro: bioreattori, analizzatori di gas e molecole, macchinari usati anche dalle aziende per i loro test. È qui che Porro, assieme al professore associato Paola Branduardi, si dedica alla ricerca: quasi cinque anni sul bioetanolo, un paio sul biodiesel e altri studi più avanzati sul butanolo, considerato il "next step" dei biocarburanti.
Una questione di efficienza. Secondo l'Agenzia internazionale dell'energia, il 2,7% dell'energia per i trasporti è rappresentata dai biofuel, con il bioetanolo (l'alcol prodotto attualmente alla fermentazione delle biomasse) a guidare la classifica grazie a due produttori dominanti: gli Usa, con 50 miliardi di litri l'anno prodotti grazie alle enormi distese di mais; e il Brasile, che produce sostanzialmente il resto, grazie all'abbondanza di canna da zucchero. Ma è proprio sul consumo del suolo che si gioca la sostenibilità delle bioraffinerie: e se all'inizio il limite pareva quasi insormontabile, grandi passi avanti sono stati fatti dalla cosiddetta "seconda generazione", in grado di massimizzarne la resa limitando impatto ambientale e costi e di produrre materiali diversi dalla stessa tipologia di biomassa. In Cina, India, Usa, Corea del Sud e nord Europa, le bioraffinerie di nuova generazione sono il nuovo orizzonte del settore. Ma l'eccellenza è anche italiana: Novamont (considerata leader mondiale delle bioplastiche), Versalis del gruppo Eni, Mossi & Ghisolfi. La stessa Eni, a settembre, ha annunciato la conversione del proprio impianto di Porto Marghera in una bioraffineria con un investimento da 100 milioni di euro, mentre Mossi & Ghisolfi è stata la prima a ricavare il bioetanolo dalla canna comune (l'Arundo donax), arrivando a produrre più biofuel rispetto alla biomassa tropicale. "Ora si sta studiando già la terza generazione di bioraffinerie, a chilometro zero e calate nel territorio", spiega Branduardi. E nel settore dell'automotive, il futuro potrebbe andare ben al di là dei biofuel.
Un'auto dagli "scarti". Al Biotechnicum assicurano che non si tratta di uno scenario a breve termine, di sicuro "non entro pochi anni". Ma tra venti magari sì. Già nel nord Europa le bioraffinerie usano gli aghi di pino e la cellulosa ottenuta da legname e scarti di polpa: "In prospettiva - è il parere del laboratorio della Bicocca - potrebbero essere usati avanzi di frutta, ad esempio le bucce degli agrumi o il siero di latte". Insomma, bio-scarti per produrre monomeri di plastiche, biogas e molto altro, da utilizzare anche nell'industria automobilistica. Gli esperti pensano già ad auto "alimentate a butanolo, con parti in plastica biodegradabile", sintetizzate da processi di bioraffineria. Tra le Case, Toyota si è già attivata proprio sui materiali. Ma c'è anche chi cerca di utilizzare i batteri per riprodurre la seta di ragno, magari da utilizzare per la produzione di airbag.
Da Quattroruote.it