Uno dice «sala prove» e pensa subito alla tradizionale sala prove con le pareti insonorizzate, piccola, dove si sta tutti stretti e dove il tempo è sempre cronometrato: due ore, non un minuto di più.
Nel mio piccolo mondo le cose non funzionano proprio così.
Dopo aver passato qualche mese a provare con l’ormai storico gruppo di amici in un magazzino di borse, borsette e portafogli, la notizia: la sala prove si trasferisce. In un posto (a quanto pare) davvero fuori dalle righe, “ma tutto attrezzato, vedrai. E… no, non portare l’ampli: lì c’è già il valvolare del Gianni. Non lo presta mai, ma se gli diciamo che è per te non dice di no”.
Io non so chi sia questo Gianni. Non ho nemmeno ben capito dove si trova questa nuova sala prove. So solo che ci si trova tutti lì, vicino a quella ex discoteca. E ci si va tutti insieme, perché c’è il rischio di perdersi.
Più o meno puntuale, arrivo al posto X e mi accodo alle cinque-sei macchine del resto della band.
Il paese è in collina. Tengo il finestrino abbassato: c’è – fortissimo – il profumo dell’erba appena tagliata; sento sulla pelle l’aria frizzante delle otto e mezza di sera, unita ad una strana sensazione di fine estate. Come se da un momento all’altro dovesse materializzarsi l’affascinante nebbiolina di fine settembre.
In realtà siamo solo a inizio agosto.
Guido tra le strade di questo piccolo paese medievale.
Sono stradine acciottolate, chiuse a destra e a sinistra da alti muri in pietra; saranno larghe a dir tanto due metri.
Chissà se ce la farò, dopo, a uscire da questo dedalo di vie.
Chissà se riuscirò entro domattina a rifare in un colpo solo fiancata destra e fiancata sinistra della francesina…
Distrattamente, sbuco in una specie di slargo chiuso da bassi muri.
Ed eccolo lì – quasi un’apparizione – il posto dove si proverà stasera.
E’ un castello.
Bello da togliere il fiato, tutto in pietra, con una vista da cartolina sulle colline e sulla pianura. E’ di epoca medievale, come tutte le case del paesello.
Un castello.
Me l’avevano anche detto, ma non avevo voluto crederci.
Mica sono abituata a suonare in un posto del genere, con un panorama così:
Nel cortile ormai buio c’è una porta illuminata: è una vecchia stanza che sa di sacrestia, con alti armadi di legno e un vecchio camino ormai in disuso. C’è anche una batteria, un mixer, diverse spie, cavi, cavetti. Ed è proprio lì, ai piedi del camino, che si trova il mio amplificatore di stasera.
Il suono che riesco a cavarne è orribilmente secco, ma col basso che mi ritrovo non riesco a fare di meglio; non importa: inizio comunque a suonare.
Sarà il gradino di pietra plurisecolare sul quale appoggio un piede, saranno i quadri alle pareti, ma quella che respiro è un’aria che sa, insieme, di sacro e di profano. E mentre cerco di inserire qualcosa di me tra le note, mi chiedo chi ha abitato qui dentro: principi? baroni?… conti? Che vita facevano? Chi si scaldava a questo camino, magari mettendosi nella mia stessa posizione?
Mentre penso a tutte queste cose, vedo entrare un tizio; si ferma sulla porta, mi sorride.
Credo sia Gianni.
Credo sia venuto a controllare se l’ampli è ancora intatto.
Invece mi chiede se mi trovo bene con il suo valvolare, perché – in effetti – il timbro dei miei fraseggi non è eccezionale.
“D’altra parte - gli spiego – questi dannati bassi attivi hanno una voce troppo aggressiva: non si riesce ad addolcirli neanche piangendo in cinese”.
Gianni mi guarda, sembra riflettere; si gira, esce dalla stanza e torna dopo cinque minuti: ha in mano un basso molto vecchio.
È identico al Bass of Doom, il basso di Pastorius.
È pieno di cicatrici.
“Prova questo“, mi dice.
E aggiunge, ridendo: “Fai solo attenzione perché pesa più di te”.
Suonerò per tutta la sera con quel basso.
Sperando di riuscire, per una volta, a fermare il tempo.