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Nuraghi, Shardana, scrittura e altre questioni di Giovanni Ugas
Creato il 24 febbraio 2014 da Pierluigimontalbanodi Giovanni Ugas
Ancora sulla funzione dei nuraghi.
Sono molte le questioni archeologiche ancora da approfondire e conoscere, ma tante altre sono oramai chiare alla scienza archeologica. Gli studi di Pais, Taramelli, Lilliu, Contu e tanti altri archeologi hanno ampiamente dimostrato, attraverso l’analisi dei complessi archeologici, delle caratteristiche ambientali, delle forme architettoniche e dei manufatti ivi rinvenuti, non solo la pertinenza cronologica dei nuraghi all’età del Bronzo, ma anche la loro funzione di edifici fortificati, usati come residenze di capi, nettamente differenti dalle case monocellulari, coperte di frasche dei villaggi.
Fig. 1 - Tavola di segni alfabetici
Tra i nuraghi esiste una gerarchia di articolazioni (torri singole, bastioni pluriturriti, bastioni con cinta esterna turrita) che può essere spiegata in maniera soddisfacente soltanto presupponendo una parallela articolazione sociale. Soprattutto il numero limitato (soltanto una cinquantina tra le migliaia), dei nuraghi con bastione difeso da una cinta turrita esterna, che potevano ospitare una consistente guarnigione di soldati, presuppone l’esistenza di autorità gerarchicamente superiori di capi che stavano al vertice della comunità.
Ovviamente, in quanto residenze (fortificate) di capi, esattamente come i palazzi residenziali dell’Egeo e del Vicino Oriente, i nuraghi erano abitati e infatti vi si trovano i resti relativi alle diverse funzioni e attività quotidiane, quali le strutture per le riserve alimentari e idriche, avanzi di cibo e strumenti per ottenerlo, le armi dei guerrieri (frombolieri, spadaccini, arcieri, lancieri) e così via. Semmai come nei palazzi micenei e orientali, nei nuraghi poteva esserci un angolo di sacro (si pensi al megaron). Detto ciò, le persone che nonostante gli incontrovertibili dati della ricerca archeologica, insistono ciecamente nel ritenere che i nuraghi fossero templi dovrebbero cercare di rispondere, tra i tanti altri, a questi quesiti:
1) perché i nuraghi sono costruiti con torri culminanti con terrazzi sorretti da mensole come i castelli medioevali?
2) perché i nuraghi sono così differenti tra loro nell’articolazione?
3) per quale ragione il nuraghe di Su Nuraxi in Barumini, nel corso del Bronzo finale, fu rifasciato e l’ingresso fu trasferito dal piano terra a circa 7 metri d’altezza?
4) perché, se fossero templi, i nuraghi furono sistematicamente devastati e poi nel I Ferro non furono più costruiti ma semplicemente ristrutturati?
5) perché nei nuraghi non si trovano oggetti connessi coi culti e con le offerte sacre di corredo sacro prima degli inizi del I Ferro o (se si vuole per qualche archeologo) prima del Bronzo Finale, mentre all’opposto si trovano manufatti necessari per la sussistenza quotidiana e le armi?
Ammesso che qualcosa fosse sfuggito agli archeologi, è impensabile che nei livelli del tardo Bronzo non abbiano visto nulla di afferente con la generale sacralità degli edifici.
Invero i sostenitori dell’equazione nuraghi=templi sono prigionieri di preconcetti teorici. Quanto all’orientamento, gli edifici sono disposti in modo da godere al massimo della luce e gli ingressi non volgono mai direttamente verso i quadranti notturni ed esposti al freddo. Tutto il resto è conseguente. Anche le case campidanesi di ladiri avevano gli ingressi verso la luce e il calore e di certo non erano certo templi. Ma se anche fossero orientati su particolari posizioni del sole, della luna e di qualche stella, può ben significare che i nuraghi erano sotto la protezione delle divinità che tali astri rappresentano, e non che essi erano templi di tali divinità. In età arcaica e classica, anche i reticolati geometrici delle città (Marzabotto, città romane etc.) rispecchiano determinati parametri astrali e nessuno si sogna di dire che erano templi. Tutt’al più questi studi sono utili per risalire al grado di conoscenza degli astri dei nostri antenati e alla identificazione di qualche culto. E’ ben noto, al riguardo, che il culto della luna, del sole e di qualche stella era già praticato in età prenuragica.
Che poi i nuraghi fossero semplici silos, è parimenti impossibile non soltanto per la loro collocazione, che presuppone spesso esigenze difensive, ma anche per la presenza (in genere su due file) di finestre, che ben poco si conciliano con la funzione di silos degli edifici, nelle torri laterali del bastione e della cinta antemurale (e occorrerebbe spiegare perché il mastio non le ha). Inoltre, chi difendeva queste riserve? Il popolo che risiedeva nelle capanne monocellulari dei villaggi, spesso lontani dai nuraghi? Occorre rispondere anche alla domanda perché mai diversi autori greci, affermavano che i Sardi Iolei (Iliesi) erano soggetti a dinastie regali, dunque a capi, e perché già in precedenza nelle statue-menhir appaiono i simboli (pugnale, scettro) del potere nell’ambito delle comunità. In effetti, i nuraghi sono gli elementi basilari di un’arcaicistica struttura matrilineare, rigidamente ancorata al vincolo del sangue e non c’è nessun appiglio per ipotizzare una struttura democratica o comunista nell’età del Bronzo in Sardegna. Importanti per l’economia, dei territori ma del tutto privi di mura recintorie, i villaggi del Bronzo recente e finale sono palesemente in condizione di grave subalternità rispetto ai possenti nuraghi; in tali condizioni, il territorio non può che appartenere ai capi e gli abitanti dei villaggi sono solo i concessionari delle terre, non i padroni. Nell’isola, una società democratica (per i Greci “aristocratica”), fondata sui consigli degli anziani, appare soltanto nel I Ferro; solo allora nasce la proprietà privata e gli abitanti dei villaggi sono finalmente i padroni delle terre.
Sull’uccisione rituale dei vecchi padri
I dati della letteratura antica, vanno interpretati e prima di rifiutarli occorre dimostrare che non hanno ragion d’essere. Nel caso specifico, l’uccisione dei vecchi padri (a cominciare ovviamente dai capi) era proverbiale, in Sardegna, già al tempo di Omero (basti pensare al raccordo con il riso sardonico di Ulisse, e con la spina sardonica del figlio di Ulisse Telegono), dunque risale già all’età del Bronzo, ed è rimasta nella tradizione etnografica sino ai nostri giorni. Perché rifiutare per la Sardegna un rito, attribuito anche a diverse altre società a successione matrilineare in relazione ai tempi eroici dell’Età del Bronzo, sostenuto tra l’altro in quest’età dalla continuazione del costume neolitico delle sepolture rannicchiate in tombe collettive, implicante una società ancora legata a un culto radicato della Dea madre? Una volta che i re venivano sacrificati con la cicuta, colpiti con frecce, bruciati (mito di Kronos e di Talos, ripreso nella tradizione carnevalesca), gettati dalle rupi (Gairo) o in un crepaccio (Golgo), i loro resti potevano essere dispersi o, al contrario, benché non sia logico, sepolti anch’essi nelle tombe comuni. Il fatto che non si sia scavato (e non il fatto che non si sia trovato!) nei luoghi indicati dalla etnografia e dall’archeologia per i sacrifici umani, non è una buona ragione per negare questo interessante e straordinario fenomeno che ha le sue radici nella società neolitica e nuragica. Ovviamente nelle comunità matrilineari era la regina che decideva quanto tempo doveva vivere il re sacro e al riguardo basti richiamare il ben noto episodio di Clitennestra che fa uccidere il marito Agamennone da Egisto, il nuovo re sacro, prima che il figlio Oreste, uccidendo la madre e sposando la principessa ereditaria, facesse mutare il costume matrilineare in uno patrilineare. Il termine “vecchio” non significa decrepito, sul punto di morire, ma piuttosto implica l’incapacità riproduttiva e il venir meno della forza fisica, doti fondamentali per far crescere la comunità e difenderla dai nemici. Nella tradizione letteraria si fa risalire all’intervento di Eracle la cessazione dei sacrifici umani (tra cui ovviamente quello dei vecchi padri). Col tempo, specie in ambito etnografico, il rito può aver assunto altri significati che giustificano azioni di “pietas” opposte all’etica nuragica dell’Età del Bronzo.
Scrittura e segni numerali in Sardegna nell’età del Bronzo e nel I Ferro
Ribadisco che finora non sono stati individuati segni di scrittura nei manufatti nuragici dell’età del Bronzo studiati dall’archeologia, a parte le sigle (singoli segni, non iscrizioni) in scrittura lineare egea (A, B, e minoico cipriota) che si osservano sui grandi lingotti in rame “ a pelle di bue”. Inoltre, sono stati ritrovati dei sigilli d’importazione (a cilindretto, scarabei etc.) alcuni dei quali sul piano strettamente cronologico possono essere attribuiti all’età del Bronzo, ma provengono tutti da contesti del I Ferro, ad esclusione del cilindretto di Su Fraigu riferibile allo scorcio del Bronzo finale. Il che significa che questi oggetti sono stati riutilizzati e non si sa con certezza quando furono importati nell’isola. Stando agli analoghi manufatti trovati sempre in contesti del I Ferro in ambito fenicio- di varie regioni, si è portati a credere che nella gran parte dei casi, questi antichi oggetti siano stati “riciclati” col commercio di collanine ed altri ornamenti. Detto questo è evidente che manca qualsiasi prova oggettiva della pratica della scrittura, fosse imprestata o imitata da un’altra regione o inventata nell’isola durante l‘età del Bronzo. Mi spiace dire che purtroppo, allo stato attuale degli studi, tutti gli altri manufatti con segni di scrittura finora attribuiti all’età del Bronzo nuragica, non appartengono affatto a questo periodo, quand’anche non siano semplici imitazioni di reperti archeologici.
Tab I - Segni numerali
La stessa cosa va detta per i segni ponderali, finora assenti nei manufatti nuragici dell’età del Bronzo. Tuttavia, in questo periodo, sono documentati pesi da bilancia e altri manufatti (spade, mattoni di fango, lingotti di rame) da cui è possibile risalire attraverso le misure di peso e quelle metrico-lineari al sistema ponderale o metrico in uso nell’isola.
La situazione muta decisamente nel I Ferro, a partire dal sec. IX. Come ho avuto occasione di scrivere un anno fa in un articolo della rivista Tharros Felix 5 (non è ancora uscito) e in una notizia dell’Unione Sarda ripresa in alcuni blog, in ambito indigeno isolano (dunque non fenicio) durante il I Ferro fu adottato un sistema di scrittura alfabetica con vocali, affine a quello in uso in Beozia agli inizi del sec. VIII. A parte l’incertezza sul valore da assegnare ad alcune lettere, per il resto non vi sono dubbi riguardo all’origine e al significato dei segni. La maggior parte dei segni alfabetici appaiono su manufatti in ceramica, pietra e metallo. Finora, le iscrizioni sono poche e limitate a una sola parola, e perciò, anche se è stato fatto un passo importante, occorre ben altro prima di azzardare ipotesi sul lessico e sulla lingua (o sulle lingue) parlate in Sardegna in età nuragica.
Lo stesso sistema alfabetico fu adoperato altresì nell’ambito di un sistema di numerazione, benché per indicare le cifre si fece ricorso anche, in un momento più recente, a un codice più semplice e pratico, simile a quello in uso in ambito etrusco e romano. Per rendere più chiaro il discorso, allego due tabelle inedite, benché già presentate in incontri di studio e conferenze, relative ai segni numerali (Tab. 1) e al sistema alfabetico in uso nell’isola durante il I Ferro (Tab 2), e una tavola (vedi fig 1, in alto) con segni alfabetici riportati su vasi da Monte Zara e M.Olladiri di Monastir, Soleminis e sullo spillone bronzeo da Antas già edito (rovesciato e come fenicio, da P. Bernardini) e che va letto AISHA, piuttosto che KISHK.
Tab IV - Sistema alfabetico durante il I Ferro
I rossi popoli delle Isole nel cuore del Mediterraneo
Non è possibile, rispondere in poche righe alla problematica questione degli affreschi delle tombe tebane dei visir Senmut, Useramon e Rekhmira, che ho esaminato in un lavoro ancora inedito. L’analisi di J. Vercoutter, in vero molto dettagliata, ha indotto molti studiosi a riconoscere i Micenei negli inviati delle “Isole nel cuore del Verde Grande” che portano i loro doni per i re egizi Ashepsuth, Tuthmosis III e Amenofi II. L’idea del Vercoutter poggia su alcune affinità fisiche e di costume di questi “isolani” con i principi di Keftiu, dunque con i Cretesi, sulla decifrazione non semplice dei prodotti, sull’idea che i Micenei avessero estromesso i Cretesi dai commerci e dalle relazioni con l’Egitto.
Vi sono almeno cinque principali motivi per sostenere, diversamente dal Vercoutter, che i principi delle Isole non potevano essere i Micenei:
1. I Micenei, o meglio gli Achei, appartengono a una terra (la Grecia) che è sul mare, ma non in mezzo al Mediterraneo;
2. I Micenei usavano scudi a 8, e solo alla fine del XIII – inizi XII secolo apparvero in Grecia i primi scudi tondi (vaso dei guerrieri, Achille nell’Iliade). Erodoto sosteneva che gli scudi tondi provenivano ai Greci dagli Egiziani; egli errava, ma riconosceva il fatto sostanziale che essi non erano di origine greca; in effetti i primi a usare gli scudi tondi furono gli Shardana, che provenivano - essi certamente- dalle Isole ubicate nel cuore del Verde Grande.
3. Sul piano figurativo, mentre i Greci distinguevano i gruppi umani in rossi (ma le donne, bianche) e dei neri, gli Egizi rappresentavano le popolazioni: rosse quelle mediterranee (Egizi, i Cretesi in primo luogo), ed etiopi eritree; chiare, a carnagione giallina, i semiti e gli indoeuropei (es. Ittiti), nere le genti dell’Africa centro-meridionale, equatoriale. Questa concezione antropologica egizia trova riscontro non solo nella convenzione figurativa ma anche nelle stirpi umane concepite nel Vecchio testamento, derivate da Noè e distinte in Giapeti, Camiti e Semiti. Negli affreschi egizi, gli inviati delle “Isole nel cuore del Verde Grande” sono sistematicamente rossi e pertanto non è possibile identificarli negli Achei che appartenevano al ramo delle genti giapetiche indoeuropee e avevano la carnagione chiara, non rossa.
4. Dal III millennio a. C., sino all’epoca alessandrina (con sovrani greci, ricordiamo!), la Grecia veniva chiamata dagli Egizi Hau Nebu, un paese importante e non troppo distante dall’Egitto e non è possibile che ad un tempo i Micenei abitassero le Isole ubicate lontano nel cuore del Verde Grande”. Il fatto, poi, che la terra di Hau Nebu fosse ubicata a Settentrione, oltre che a Ovest, come del resto le Isole del Cuore, non è ragione valida per collocarla nei posti settentrionali più disparati, perché per gli Egizi, data l’ubicazione della loro terra, tutti i popoli del Mediterraneo, isolani e continentali, erano necessariamente settentrionali!
5. Sino al V anno di Meremptah, quando appaiono gli Equesh, identificati da diversi studiosi con gli Akaioi omerici, non risultano attestate in Egitto genti greche, a parte, come detto, gli abitanti di Hau Nebu. Tra i popoli delle Isole, soltanto gli Shardana sono espressamente menzionati nei documenti egizi e vicino-orientali fin dal XIV se non dal XV sec. a.C., e non a caso essi richiamano i portatori di doni delle tombe tebane di visir, ma gli Shardana per le loro armi, l’abbigliamento militare e le caratteristiche fisiche non possono essere, come detto, una popolazione achea.
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