Magazine Cinema
di Lars Von Trier (Danimarca, 2013)
con Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgard, Stacy Martin, Shia LaBoeuf, Christian Slater, Uma Thurman, Hugo Speer, Willem Dafoe, Mia Goth
durata: 240 min. (100' + 140')
★★★☆☆
Non è bello, mi rendo conto, iniziare una recensione con uno spoiler... ma davvero non riesco a parlare di Nymph()maniac senza citare la scena (per me) più importante di tutto il film, quella che ne dà la chiave di lettura e ci consente di formulare un'interpretazione scevra da pregiudizi (e diciamo subito che se avete pregiudizi di qualsiasi tipo non iniziate nemmeno la visione del film, perchè Nymph()maniac per essere compreso e giudicato va affrontato con la mente aperta e una certa predisposizione all'ascolto: mai come in questo caso infatti si tratta di un film - e di un autore - che tendono la mano, seppur a modo loro, verso chi guarda... e proverò a spiegarne il motivo).
In questa scena Joe, la protagonista, entrata nel giro della malavita, ha il compito di estorcere a un tizio una cospicua somma di denaro, con ogni mezzo. L'uomo però si rivela un duro e non cede alle reiterate minacce, finchè Joe ha un'intuizione: stimolando sessualmente il malcapitato, scopre la sua insana passione per la pedofilia... l'uomo crolla ma, a sorpresa, Joe anzichè continuare a tormentarlo finisce con l'impietosirsi e gli pratica una fellatio consolatoria. La sua spiegazione è sconvolgente: solo il 5% dei pedofili violenta i bambini, mentre il restante 95% reprime la propria passione per tutta la vita. E' chiara la morale di Joe: non si può condannare un uomo per la sua sessualità solo perchè questa è ritenuta oscena dal mondo comune. La pedofilia come la ninfomania, ovvero il disprezzo per il 'diverso', l'isolamento, l'incomprensione, il dolore represso.
Nymph()maniac è un film dove il dolore è protagonista assoluto: è il dolore di un cineasta complesso e complessato, che lo esprime a modo suo, con gli strumenti (forse gli unici) che possiede e che sa usare. E' un grido disperato, una richiesta di comprensione se non addirittura di aiuto: Von Trier ci chiede di aprire gli occhi sulla diversità, verso chi non riesce a trovare la serenità nel conformismo.
Viene facile pensare che stia parlando di sè: non sappiamo se sia così ma di sicuro il film è l'espressione di un disagio lancinante, quasi incontrollabile. Per certi aspetti è il naturale seguito di Melancholia (pur non riuscendo a raggiungere le stesse vette di coinvolgimento, emotività ed espressività): è un film profondamente umano ma anche sobrio (non sto scherzando!), che rifugge le provocazioni estreme e violente di Antichrist (e anche il moralismo bigotto de Le onde del destino e Dancer in the dark) per raccontarci una storia di sofferenza, esclusione, profonda solitudine, che per una volta non vuole convincerci di niente ma solo coinvolgerci e farci ragionare.
Il racconto è lungo otto capitoli più un prologo, nel quale vediamo la protagonista, Joe (Charlotte Gainsbourg) giacere al suolo in vicolo buio e maleodorante, piena di lividi e ferite. A trovarla è l'anziano professor Seligman (Stellan Skarsgard) che la raccoglie e la porta a casa sua, la stende sul letto e la rifocilla. Lentamente, pur con grande diffidenza, la donna accetta di raccontare la storia della propria vita, ben consapevole che difficilmente incontrerà la comprensione del suo interlocutore...
Joe è una ninfomane: lungo gli otto spezzoni del film si assiste senza troppi fronzoli prima allo svilupparsi del desiderio, fin dall'infanzia, quando la vediamo allagare il pavimento del bagno e strusciare la vagina sulle piastrelle bagnate, e via via fino alla sempre più inarrestabile voracità sessuale, che la costringe praticamente fin da subito a un'obbligata solitudine, rifuggendo a differenza delle sue coetanee 'una società basata ossessivamente sull'amore'... il problema è che l'amore, essendo irrazionale (e quindi pericolosissimo nella psiche vontrieriana) è anche incontrollabile e imprevedibile: e quando arriva davvero, nei panni del suo imbelle datore di lavoro Jerome (Shia LaBoeuf), si scontra inevitabilmente con l'eccessivo soddisfacimento e la monotonia dell'atto sessuale, ormai ridotto a puro meccanicismo.
Per Joe inizia così la discesa agli inferi: i disperati tentativi di rinvigorire il desiderio la spingono a pratiche sempre più estreme, tremende per squallore e pericolosità, che ovviamente la rendono ancora più infelice. E qui entra in scena il vecchio Seligman, ovvero la coscienza civile del racconto, colui che guarda e giudica, apparentemente distaccato e disposto ad ascoltare...
Seligman rappresenta il mondo esterno, benpensante, ipocrita e fintamente progressista, che si nasconde dietro una cultura ostentata e arida ma che in realtà fa una fatica enorme ad accettare quello che non rientra nei suoi canoni: non a caso all'inizio mostra uno spiccato interesse verso il racconto di Joe, cercando di giustificare e interpretare il crescente appetito erotico della donna (e facendo ricorso a pseudo-digressioni storiche, teologiche, scientifiche, matematiche) per poi però irrigidirsi sempre più man mano che Joe descrive invece lo spegnimento della passione. Seligman, vergine e asessuato (?), non concepisce e non comprende un mondo per lui inesplorato, e lo rifiuta senza mezzi termini. E il finale del film, esemplare nella sua banalità, si rivela l'unico possibile.
Nymph()maniac è il film più complesso, sincero e onesto di Lars Von Trier. Non il più riuscito, forse proprio a causa del suo personale disagio interiore che gli fa venir meno, in parte, la proverbiale sfrontatezza e irriverenza delle opere più note. Quattro ore di durata (e parliamo solo della versione accorciata, quella visionata dal sottoscritto) sono un po' troppe per uno sviluppo fluido e lucido di un film del genere, dove momenti topici e emotivamente coinvolgenti, quasi ai limiti della sostenibilità (l'episiodio con Uma Thurman, dignitosa e disperata moglie tradita, è straordinario) si alternano a sequenze abbastanza stucchevoli e ripetitive. Ma, complessivamente, è un'opera che certo non lascia indifferente e ti fa pensare. A patto, come dicevamo all'inizio, di essere disposti a spogliarsi dei propri pregiudizi.
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