Gioca ancora una volta Lars von Trier. Gioca con l’uomo e con la donna. Col mondo e l’immondo. Gioca con il piacere e il dolore. Col cuore e la carne. Gioca con il sesso e con se stesso (o perfino a “rifare” se stesso). E, inevitabilmente, gioca col cinema e coi suoi spettatori, sfidati nuovamente a oltrepassare barriere, demolire tabù e andare oltre la “semplice” provocazione, si tratti di quella indotta da media patologicamente in fissa con lo scandalo, o di quella che scaturisce naturale dalle “ordinarie” memorie di una giovane ninfomane. Perché Nymph()maniac (togliere le eloquenti parentesi equivarrebbe a negazione) è in fondo una serissima variazione sul tema del gioco delle parti che tanto piace all’amico Lars. Il completamento sì di una ideale trilogia sulla “dannazione” del vivere (dopo Antichrist e Melancholia) con la donna come fulcro e la Gainsbourg quale variabile dipendente, ma anche, una volta di più, uno studio accurato e cinicamente privo di empatia sull’umanità, quella stessa che al regista piace rappresentare attraverso il dualismo dei protagonisti (accadeva già fra i coniugi di Antichrist e le sorelle di Melancholia, ma anche fra la fragile Bess e la respingente comunità di Breaking the Waves o fra la remissiva Grace e la schizofrenica Dogville). Un gioco delle parti appunto, con gli estremi ai suoi lati e tutte le sfumature dell’umanità in mezzo a loro.
E in fondo è solo questo, più che la provocazione legata a rappresentazioni hard, ciò che dovrebbe restare al termine della visione (complessiva) di Nymph()maniac, opera cinematograficamente inscindibile e criticamente giudicabile solo nella sua continuity narrativa. E se sull’integrità dell’opera è lecito avanzare qualche dubbio (la versione giunta in sala è alquanto “sforbiciata” anche se, pare, più da sequenze dialogate che da momenti genuinamente pornografici), sulla coerenza complessiva dell’operazione è meno difficile sbagliarsi. Otto capitoli chiamati a tratteggiare senza pietà la figura sbarazzina, vorace e dolente di Joe, ninfomane soccorsa (in un incipit che è anche la fine) da un caritatevole e colto sconosciuto di nome Seligman (Stellan Skarsgård), virginale prototipo di maschio che della stessa diventa subito il simbolico e “puro” contraltare, oltre che il depositario morale del suo sfrenato diario. Otto sezioni cronologicamente progressive che traggono titolo e senso da libere associazioni mentali (il pescatore perfetto e la caccia agli uomini in treno), emotive (Jerôme, l’uomo che più segnerà l’esistenza sentimentale di Joe), letterarie (il delirium tremens di Poe come scaturigine di una dolorosa elaborazione del lutto), musicali (la scuola di organo con la polifonia di Bach a fare da parallelo al bisogno sessuale complementare di Joe) e perfino storiche (la Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente, ovvero lo scisma da cui originerà, come contrappasso all’azzeramento del desiderio, la ricerca del dolore come nuova frontiera della libido).
In mezzo si citano e si mescolano con (im)pertinenza Fibonacci, James Bond e Shostakovich, tutti filari di un colto, affascinante e autocompiaciuto quadro d’insieme che irriterà molti e entusiasmerà tanti ma che di sicuro (perché questa è l’unica certezza del suo cinema) non lascerà indifferente nessuno, anche perché Lars von Trier, più o meno come sempre, non mira a fare dello scandalo annunciato l’essenza del discorso. Quello al più è tirato in ballo solo come specchietto per le allodole per gli esercenti in ribasso (sinceramente, avremmo mai visto un suo film in multisala se non si fosse intitolato Nymph()maniac?). No lui va ancora una volta dritto al suo “sodo”, avanti senza indugi verso quella drammatica decostruzione di strutture sociali erette sull’ipocrisia e alimentate dal perbenismo. Rivoluzioni intense e spesso urlate che si affidano alla donna non tanto per ipotetica misoginia ma perché chi più della donna, origo mundi e al tempo stesso capro espiatorio sociale per secoli, potrebbe avere il diritto di sovvertire quell’ordine o, quantomeno, di metterlo in discussione?
In questo senso Joe la ninfomane, così come la Lei di Antichrist e la duplice Justine-Claire di Melancholia, è pura antitesi e rifiuto delle convenzioni. Attraverso il suo corpo entusiasta, desideroso, indifferente e infine martoriato, passa un’intera gamma di atteggiamenti sociali che vanno dalla presa di coscienza del proprio ruolo (l’ironico e sfacciato “decamerone” iniziale) alla ricerca sentimentale, dal sensibile (la polifonia sessuale rintracciata nei diversi rapporti) all’insensibile (il sesso vissuto come rimedio senza sapore durante l’agonia del padre), dalla negazione della classica struttura familiare alla sua riproposizione in chiave omosessuale e perfino “malavitosa” (e qui Joe si riappropria in un certo senso di nuova autorità). Fino a quel cerchio che si richiude “in nero” (e sul nero) e che sigilla l’intera operazione con perfetta coerenza e, soprattutto, coerentemente al suo Autore. Joe la ninfomane che “non gode” si trasfigura alla fine nel simulacro dell’essere umano che non smette mai di ricercare se stesso, quello che rifiuta di farsi imbrigliare nelle forme e negli schemi conosciuti e “colpevole” solo di “chiedere di più dai tramonti” (o magari di parteciparvi nella misura di uno squarcio di luce filtrato da un sobborgo nascosto). Una ricerca che sfianca e chiede, giustamente, solo quel po’ di requie che non andrebbe negata a qualsiasi essere umano. Almeno finché…