Ospito più che volentieri la recensione di Valentina Nencini, conosciuta anche come Gioia Della Mia Vita, che è andata a vedere l'ultimo imperdibile capolavoro del mio Maestro e Dio in terra:Lars Von Trier
Dovrei andarci anche io,ma per impegni vari non riesco mai a trovare il tempoLa sua penso sia una bella analisi, certamente migliore rispetto a quella del giornalista del Fatto Quotidiano e di altri imbecilli che dovrebbero solo ringraziare Lars. Egli permette a loro di scaricare la loro mediocrità umana facendo scrivere a costoro una lunga sequela di stronzate ed insulti. Va di moda così,ormai. Basti vedere anche quello che è successo con La Grande Bellezza. Non solo la fragilità dell'opinione estemporanea e buttata lì a caso,ma anche l'insulto sciatto,la pigrizia intellettuale,l'ostentazione di un gusto Popolare e Gentista davvero ridicoloBè,chiudo la polemica- maddo se son polemico a getto continuo ,dovrei regolarmi-e vi lascio con la bella recensione di Valentinaps: si ,il mio blog volendo potete anche commentarlo eh! Un cinema come quello di Von Trier non si affronta mai a cuor leggero. Vedere un film del regista danese significa, prima di ogni altra cosa, confrontarsi con se stessi, con la propria morale, con le proprie paure e con i propri limiti. Perché Lars Von Trier non risparmia nulla allo spettatore e pretende da lui una partecipazione emotiva che da molti può essere considerata ricattatoria ma che è, invece, la condivisione profonda di un dolore. Perché i suoi film sono sempre carichi di un dolore che difficilmente si riesce a sopportare, a patto che si accetti di farsi coinvolgere. Poi c’è chi lo considera un algido calcolatore ed un vuoto provocatore ma questo è un tipo di reazione comune quando ci si trova di fronte ad un artista e non ad un semplice artigiano del cinema. “Molti nemici molto onore”, diceva Cesare. E, anche se l’affermazione non è proprio nelle mie corde, mette bene in evidenza come un utilizzo forte ed estremamente personale del mezzo cinematografico crei necessariamente un preciso spartiacque tra estimatori e detrattori. Credo che solo i cinefili più esperti siano in grado di riconoscere un film di Ron Howard, se non sanno che c’è lui alla regia, mentre quasi chiunque è in grado di riconoscere un film di Von Trier. E anche se questo non è necessariamente un merito è, sicuramente, indicativo di un certo modo di fare e concepire il cinema che diventa visione personalissima ed assolutamente esibita.La doverosa premessa riguardo a qualsiasi opinione su questo film è che rimane molto difficile darne un giudizio complessivo guardando la versione tagliata che è nelle sale in questi giorni e della quale lo stesso regista, in un messaggio che compare prima dell’inizio della proiezione, si dichiara non responsabile nonostante, alla fine, l’abbia approvata. Così come è, Nymphomaniac è un’opera evidentemente incompleta con dei passaggi di sceneggiatura bruschi e scorretti nella loro scarsa logica ed è un peccato vederla così perché è una pellicola densa di rimandi, riferimenti e citazioni dalle discipline più disparate: dalla matematica alla musica passando per la pesca. Nulla è lasciato al caso nel film di Von Trier e tutto ha un senso voluto e significativo che arricchisce la visione della vicenda narrata rendendola universale e cosmica, come già accadeva in Antichrist e Melancholia, le precedenti opere del regista danese che vanno a comporre la cosiddetta Trilogia della depressioneAttraverso il racconto della sua vita che Joe (Charlotte Gainsbourg) fa a Seligman (Stellan Skarsgård) siamo accompagnati nella visione di una serie ininterrotta di rapporti sessuali dei quali appare evidente la natura malata, non per le perversioni esibite (le pratiche sessuali rappresentate sono le più comuni e, almeno nella versione tagliata, niente affatto scandalose per ciò che viene mostrato e per come viene mostrato) ma per la mancanza totale di coinvolgimento emotivo ed affettivo della protagonista. Dopo un po’ appare fin troppo evidente che a Lars non interessa minimamente parlare di sesso ma solamente di deviazione degli affetti laddove Joe si dimostra del tutto incapace di manifestare sentimenti positivi di amore e tenerezza nei confronti delle persone con cui entra in contatto. E tutto si riconduce alla sua condizione familiare che, piano piano, emerge e ci pone di fronte ad una madre algida ed anaffettiva (Connie Nielsen) e ad un padre affettuoso (Christian Slater) ma che riversa sulla figlia tutta la mancanza d’amore coniugale. Ed è il confronto con la figura paterna che diventa il tema centrale del film o, almeno, di questa prima parte. Perché la protagonista, per quanto ami il padre, è incapace di dimostrargli il suo affetto in maniera completa e spontanea. E questa incapacità è resa evidente dalla scena più bella di tutto il film quando Joe si rende conto che il padre, rinchiuso in una struttura psichiatrica, è sporco di feci e chiama gli operatori della struttura per pulirlo essendo lei incapace di farlo in prima persona. Ed è bellissimo vedere come la cura con cui mani estranee si occupano del padre è contrapposta alla freddezza e alla totale passività della figlia, incapace di gestire la situazione.Ma Nymphomaniac è un film fortemente morale e chi conosce bene Lars Von Trier non faticherà a crederlo. Il personaggio di Joe, fin dalla sua prima apparizione, autocondanna la propria immoralità e la propria lussuria e desidera essere giudicata e punita da Seligman che, invece, si approccia a lei ed alla sua storia senza pregiudizio alcuno. Ma quello che emerge dalla visione del film non è tanto l’immoralità della protagonista quanto quella degli uomini con cui lei fa sesso che non si tirano mai indietro ogni volta che Joe si offre. Ed è qui che Lars condanna e giudica. Perché, se Joe è evidentemente malata e bloccata nelle sue capacità affettive, non si può dire altrettanto degli uomini che copulano con lei, ben consapevoli di ciò che stanno facendo. E se ce ne fosse bisogno questa è un’ulteriore prova di come la presunta misoginia di Von Trier non sia altro che un’interpretazione tendenziosa e disattenta del suo cinema in quanto, alla fine, i personaggi femminili sono sempre gli unici che si salvano dalla condanna universale dell’umanità ad opera del regista.Andando oltre la visione del film è quasi dovuto fare il paragone tra la figura di Joe e quella di Bess, la protagonista de Le onde del destino. Tanto Bess è capace di amare in maniera pura e piena di tenerezza tanto Joe dimostra la sua incapacità di farlo e ostenta la sua freddezza. Questi due personaggi rapprestano due opposti ideologici che sono, però, espressione identica di inadeguatezza ad un contesto sociale al quale non sembrano appartenere e dal quale, in un certo senso, si sentono respinti. Di qui a comprendere come essi siano identificativi del regista stesso il passo è breve.Magazine Cinema
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