Non ho voglia di dormire, non ho voglia di leggere, non ho voglia di vedere film, non ho voglia di parlare. Provo a scrivere qualcosa giusto per trovare un motivo valido per fare ordine tra i miei pensieri. Negli ultimi giorni credo di avere la ferritina sotto le scarpe: l’energia è a zero, fuori piove, di cervello mi sento bene poiché esso ruota a fasi alterne.
Avere attorno gente più chiara potrebbe aiutarmi a sistemare meglio le cose. È quasi l’una, il cane dorme ai miei piedi, non indosso gli occhiali, mi bruciano gli occhi, non ho fatto altro che leggere, appuntare, scrivere e ragionare con alcuni amici del più e del meno dell’utilità del mondo, dei ragni, della asocialità, della voglia di dire vaffanculo una volta per tutte alle questioni in sospeso, di quanto il tempo in questi giorni faccia schifo.
Potevo farmi mancare allora un lavoro che mi trasmettesse in qualche modo il buon umore? Il secondo volume di Nymphomaniac di Lars Von Trier è sicuramente migliore del primo. Se devo tracciare una linea che vada a segnare un risultato finale su tutta l’opera del regista, uscita proprio in quest’ultimo mese, devo dire che il voto sarebbe bassissimo. E’ la narrazione di una storia banale nella sua prima parte, con un finale che lo è altrettanto nella seconda.
Non credo che i fedelissimi siano entusiasti di questo risultato. Se ci dovessero essere tra voi appassionati, non mi scuso, poiché ognuno ha delle opinioni che devono essere rispettate e/o consolidate dai confronti altrui. Piuttosto ammazziamoci di parolacce nei commenti poiché credo sia più avvincente.
Di questa accozzaglia di filamenti sequenziali ciò che mi ha colpito di più sono stati due aspetti principali. Il primo, è il discorso che Joe (Charlotte Gainsborg) fa alla sua psicologa quando è costretta dalla sua azienda a partecipare a una terapia di gruppo per farsi curare dalla sua dipendenza. L’argomentazione montata, in quel caso, regge sul filo di una resistenza abbastanza credibile per l’identità di una singola persona prescindendo dal sesso, razza e dalle sue abitudini. In realtà ciò che mi ha appassionato è il riferimento fatto alla società borghese – nociva in tutti i sensi, in bilico, ora nel disfattismo più totale, in cui ci si può ritrovare a pieno. Il regista crea questi attacchi voluti completando la situazione attraverso la messa a fuoco di una macchina. Una sorta di castello con sotto una Mercedes che brucia. La sequenza poi si snoda con un cambio di discorsi che ritorna sui personaggi che si raccontano l’un l’altro le proprie interpretazioni sulle e delle cose vissute in un confronto che potrebbe reggere se non arrivasse a un finale di quel tipo, senza troppo valore.
La doppia chiave religione – sesso /vergine – ninfomane è affascinante come condizione cinematografica ma Trier toppa. Sì, per me toppa. La banalizza, la appiattisce con rimandi forzati, spinge oltre i personaggi. Addirittura in uno dei dialoghi fa prendere in giro lo spettatore dimostrandogli come la sceneggiatura non avrebbe retto se il protagonista fosse stato maschile.
In più il cambio delle identità tra le varie sequenze non avviene in maniera equilibrata. Jerome, ad esempio, lo ottiene troppo tardi rispetto a Joe.
Il rischio è di perdere un attimo il filo della narrazione non riconoscendo gli interpreti al primo colpo, soprattutto se ci si distrae dai campanelli.
Da giorni non sento al top la passione circolare nelle vene, non mi prende quasi nulla e tutto mi stupisce davvero poco. Digito parole per inerzia e mi chiedo se sia giusto continuare a farlo. Questo post non è dei migliori ma lo pubblico ugualmente.
Il film però lo consiglio, nonostante tutto.
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