Matteo Vergani
Mai giudicare un libro dalla sua copertina, e soprattutto mai dare opinioni in maniera troppo affrettata. Se tale regola vale anche per il cinema, ecco che Nymphomaniac: Vol. II, seconda tranche del nuovo e discusso progetto cine-erotico di Lars von Trier, la conferma in toto. Dopo l’ottimo e sconvolgente esordio autoriale di Nymphomaniac: Vol. I, il regista danese pare ora aver perso la sua verve, preferendo rinunciare alle sperimentazioni narrative che tanto ci avevano colpito nella prima parte, per spostarsi verso un inutile e pedante approfondimento psicologico di Joe (Charlotte Gainsbourg), la giovane ninfomane protagonista del racconto che avevamo lasciato alle prese con la difficile situazione di dover conciliare il matrimonio con l’amico Jerôme (Shia LaBeouf) e le proprie irresistibili pulsioni libidinose. Seguendo nuovamente il pretesto della cornice offerta dalla narrazione-confessione della donna all’erudito Seligman (Stellan Skarsgård), la pellicola si articola attraverso l’uso enciclopedico e catalografico di una suddivisione in tre capitoli, che chiudono il discorso aperto dai cinque visti nel primo film. Il sesto capitolo, La Chiesa d’Oriente e d’Occidente (L’anatra silenziosa), partendo da una digressione storico-artista sullo Scisma d’Oriente dovuta alla contemplazione di un’icona religiosa bizantina, descrive la catastrofe che si abbatte su Joe e sulla sua vita matrimoniale, a causa di una improvvisa inappetenza sessuale che la mortifica contestualmente alla nascita del figlio Marcel. Divenuta completamente insensibile ad ogni stimolo libidico, in accordo con Jerôme, Joe inizia a frequentare altri uomini, arrivando addirittura a sfiorare un grottesco e magistrale rapporto sessuale con due fratelli africani (alquanto ben dotati ma inclini al litigio per spartirsi gli orifizii della giovane). Passano gli anni, e Joe, arrivando a trascurare il marito ed il figlio, inizia a votarsi alle pratiche sadomasochistiche, grazie alle sedute con il misterioso signor K (Jamie Bell), vero esperto nell’arte delle percosse e delle legature. Ma sarà proprio questa nuova ed insolita depravazione che porterà Joe, divenuta ormai dipendente da tali pratiche per soddisfare i propri morbosi appetiti, ad abbandonare la sua famiglia.
Il settimo capitolo, Lo specchio, illustra la presa di coscienza da parte di Joe, divenuta ormai adulta e alle prese con i primi problemi dovuti all’abuso del proprio corpo, la quale decide di ricorrere ad una terapia di gruppo per curare la propria dipendenza dal sesso. Dopo aver inizialmente cercato, come suggerito dalla terapeuta, di dimenticare ogni cosa o situazione che potesse richiamarla ai suoi istinti (arrivando addirittura in casa a nascondere, coprendoli, gli oggetti dalla vaga connotazione fallica), Joe però capisce che è appunto nella sua personale diversità-depravazione che si trova la sua natura e la sua identità, e perciò decide di fuggire dall’ipocrisia sociale per perseguire la propria libertà. L’ottavo e ultimo capitolo, La pistola, prendendo il via da una gustosa discussione tra Joe e Seligman sulle armi da fuoco di James Bond, descrive i vari tentativi da parte della donna di trovare un lavoro, fino all’incontro con il signor L (Willem Dafoe), criminale senza scrupoli specializzato nell’offrire servizi di strozzinaggio e riscossione forzata. Joe viene ingaggiata come esperta nell’arte della tortura psico-sessuale, grazie alla sua sostanziosa esperienza nel campo delle percosse (retaggio della scuola del signor K) e nella capacità di usare degli specifici rilevatori sessuali per captare le debolezze degli inadempienti. Dopo alcuni anni di sfolgorante carriera, Joe inizia ad accusare i segni dell’età, e L la invita a trovare qualcuno da allevare e a cui passare il testimone, consigliandole di prendere di mira P (Mia Goth), ragazzina orfana ed emarginata a causa di una malformazione all’orecchio. Non senza scrupoli, Joe decide di adescare P, coltivando con lei un profondo legame che finisce per trasformarsi in una torbida relazione perversa.
Joe si accorge ben presto che la sua giovane allieva è molto (troppo) intraprendente e priva di qualunque remora nel compiere il proprio dovere. Ma il vero colpo di grazia arriva quando Joe viene a scoprire che P ha intrapreso una relazione segreta proprio con il suo vecchio amore, Jerôme, una delle tante vittime delle estorsioni di L. Decisa a mettere fine alla storia, un po’ per gelosia e un po’ per vendetta verso l’ex marito, Joe, pronta a sparare alla coppia, si apposta in una stradina, ma la sua pistola non funziona (qui il collegamento con Bond la cui Beretta una volta aveva avuto lo stesso problema), condannandola a subire un sonoro pestaggio da parte di Jerôme. E così il racconto circolare si riaggancia all’inizio della vicenda, subito dopo il ritrovamento nel vicolo del corpo della donna da parte di Seligman, il quale, rivelatosi un asessuato, si sente in grado di fornire un proprio parere obbiettivo sul comportamento e sulla vita della donna. Dopo una pedante e alquanto povera interpretazione psicoanalitica dell’accaduto, i due personaggi paiono aver trovato un proprio equilibrio reciproco, soprattutto Joe, ormai libera dal peso della colpa grazie alla sua confessione catartica. Ma è proprio nel finale, sullo stesso nero torbido con cui la storia era iniziata, che si consuma una delle conclusioni più ciniche e taglienti di tutto il cinema di Lars von Trier, fedele alla sua poetica della pochezza umana e dell’impossibilità fisiologica di una coerente salvezza ideale, in quanto l’uomo è e rimane pur sempre per il regista solo una bestia. Detto questo, tirando le somme dell’intero progetto, possiamo notare come le scoppiettanti e stuzzicanti premesse iniziali siano state abbondantemente disattese, forse per un eccessivo bisogno di fare di un’opera che aveva tutte le carte in tavola per essere un gustoso laboratorio di sperimentazione una insipida lezione di morale sulla perversità.
Al di là del tono generale, che in questa seconda parte appare obiettivamente fiacco e privo degli stimoli cine-narrativi della prima, anche la progressione della storia risente di molti punti morti e di un eccesso di filosofia spicciola, alternata a sporadici riferimenti extra-diegetici che sembrano a volte fuori luogo (tra cui un inopportuno e autocelebrante riferimento allo stesso Antichrist). Anche il livello di erotismo appare in netto calo, per lasciare spazio a giochetti di depravazione feticista che alla lunga finiscono per stancare. Nemmeno la prestazione attoriale, condita dai simpatici cammei di Udo Kier e Caroline Goodall, appare al livello di quella del primo film, eccezion fatta che per la sempre splendida Charlotte Gainsbourg, la quale, meno presente in Nymphomaniac: Vol. I, si trova qui a dover reggere da sola (e con grande capacità e coraggio) il ruolo da indiscussa protagonista, finendo purtroppo per collassare sotto il peso dell’inconsistenza della narrazione. Avrebbero invece meritato qualcosa in più Jamie Bell e Willem Dafoe, entrambi molto capaci, specie il primo, penalizzati dalle ingessate e poco approfondite figure che si ritrovano a dover interpretare. Trattandosi ovviamente della versione per così dire soft-core (dunque abbondantemente censurata nelle sue parti esplicite e, a prescindere da queste, tagliata di circa sessanta minuti), la sensazione è che alla pellicola siano state apportate sommarie ed illogiche amputazioni, col risultato di pesanti ricadute sul ritmo, sulla qualità e sulla logica complessiva dell’intero esperimento, nato come un succoso frutto del peccato, ma destinato a rivelarsi un ammasso di fumo che circonda un bruciacchiato e ormai inservibile arrosto. Speravamo in un successo, raccogliamo solo i cocci di un vaso mal fatto.