“O tuocco” di Pasquale Ponzillo. Il gioco dei camorristi

Creato il 09 maggio 2015 da Vesuviolive

Chi di noi non ha mai giocato alla morra cinese?! Questo divertimento, chiamato originariamente solo morra, era molto diffuso a Napoli nell’Ottocento. Vinceva chi per primo indovinava il numero che i due giocatori sommavamo aprendo contemporaneamente le mani. Alla morra si dilettavano principalmente i popolani, i carcerati e i camorristi. E proprio a questo gioco va ricondotta l’etimologia del termine “camorra”.

La prima sillaba ca- potrebbe essere un prefisso rafforzativo dialettale, invece in napoletano “morra” ha il significato di moltitudine, banda, e più in generale indica un insieme di persone rumorose. Quindi il “camorrista” era “colui che dirigeva il gioco e prendeva i soldi su di esso”. Con tale significato “morra” compare per la prima volta in un documento ufficiale del 1735. Nella prammatica si autorizzava a Napoli l’apertura di otto case da gioco, con la dicitura “camorra avanti palazzo”. Anche se fu Arturo Labriola a indicare per primo, nel 1901, nell’opera “Le Leggende della camorra”, la correlazione tra questo termine e il gioco.

La morra era conosciuta a Napoli anche come il tocco. Proprio da questo nome trae il titolo un’opera di Pasquale Ponzillo, autore napoletano di fine Ottocento, che pubblica nel 1897 “O  Tuocco”. Questo bozzetto in versi vede protagonisti un gruppetto di uomini di malaffare che si riunisce in un’osteria per giocare al tocco appunto. Uno dei giovani presenti, Papele, che si sta avviando sulla strada della criminalità, ha preso in giro Tore durante una scampagnata, con l’obiettivo di sottrargli la fidanzata. Per questo torto, Tore sfida Papele e lo affronta con la rivoltella lasciandolo morire tra la braccia della madre che lo stesso giovane invoca in punto di morte. Il bozzetto si basa sul classico triangolo amoroso in cui lo sfidante ha la peggio nonostante l’intromissione della figura materna che cerca di riportalo sulla buona strada prevedendo una tragica fine. Papele, invece, ha ormai perso il rispetto per la donna che l’ha cresciuto, come si evince dalle parole che pronuncia nella VII scena: “Chell’ha perzo ’e cerevella/ Chell’aspetta ch’io nu juorno/ Faccio correre ’a bbulanza/ Dint’’a casa!”.

immagine di Pasquale Ponzillo

Ciò che rende speciali i versi di Ponzillo, non è tanto la storia che raccontano, quanto la passione che esprimono. A rendere ancora più particolari i suoi testi il mestiere del giovane. Ponzillo era infatti un pompiere, e quindi non uno scrittore di professione, inoltre, non sapeva scrivere e dettava i versi che elaborava a un caporale. Le sue opere non superano mai i venti versi e spesso si limitano a due quartine, eppure in quei pochi righi il poeta-pompiere riesce a esprimere tutto un mondo di emozioni e vicende che cercano di spiegare il senso della vita. Ponzillo narra anche di storie che all’inizio illudono facendo credere al protagonista di essere riuscito a beffare il destino, che però alla fine ha sempre la meglio dimostrando quanto l’uomo possa essere inerme di fronte ad alcune situazioni. Ma è proprio la voglia di rivincita e di vittoria contro le avversità che spesso aleggia tra i versi di Ponzillo, rendendoli indimenticabili.

Fonti: Giuliano Turone, “Il delitto di associazione mafiosa”, Giuffrè Editore, Milano, 2008

Ciro Daniele, “Pasquale Ponzillo”, Daniele, Napoli, 2013

Cristiana Anna Addesso, “Pasquale Ponzillo, ‘O tuocco”, 2009

Pasquale Ponzillo, “O tuocco. Bozzetto in versi”, Napoli, Prete, 1897


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