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L’altra sera tornando verso casa osservavo il deserto al tramonto: dune, cespugli, pochi alberi secchi e sabbia. A perdita d’occhio tutto intorno i colori della terra e del sole, un paesaggio spirituale immobile solo da contemplare. Non è un caso caso se alcune delle più grandi religioni del mondo sono nate quaggiù, dove anche senza essere credenti quel confine sottile tra fede e filosofia attira come un abisso. Una terra vaga che appare e scompare tra misticismo e spiritualità, culto e pietà, saggezza e umiltà, bellezza e trascendenza.
Obaid viveva a Khutwah e fummo buoni amici per molti anni. Un giorno andammo a trovarlo insieme ad Abadilah che parlava Arabo e lui ci portò fin su in fondo al Wadi Shimal. Passammo per piste tra le montagne che per lunghi tratti erano state trascinate via dalle inondazioni di torrenti che passano la maggior parte dell’anno asciutti, che ci possono andare tranquillamente i bambini a giocare al pallone il venerdì pomeriggio. Poi per pochi giorni della nostra vita (che non contano nulla nel loro tempo infinito) decidono di scendere improvvisamente dai monti Hajar, violenti come mille eserciti vendicatori mandati da qualche Dio del cielo in collera con quegli uomini per chissà quale motivo. E si portano via uomini, cose e animali, votati alla distruzione e allo sterminio. E’ la sorte toccata un giorno di tanto tempo fa al vecchio villaggio di Obaid, si è salvato solo il cimitero sulla collina, lassù dove cresce l’aloe e le tombe sono ovali di pietre appena percettibile e non diverse dalle altre migliaia che gli stanno intorno.
Obaid adesso sta lassù, in quell’umile cimitero musulmano, fatto di tombe semplici. L’Islam è una religione profondamente spirituale che non da particolare valore alle spoglie mortali, non recano significati particolari e non c’è alcun bisogno di monumenti commemorativi. Nel deserto tutto scorre, tutto si trasforma tra la sabbia e il vento.
Molti anni prima Obaid scendeva dalla sua valle, fino ad Al Fara per le corse dei cammelli. Arrivava il venerdì mattina e gli piaceva fermarsi nel cortile della baita per trovare di Sheikh Sulail per fumare un po’ di quel tabacco che coltivavano sulle terrazze strappate ai sassi e irrigate goccia a goccia dalla poca acqua dei falaj, vero tesoro di quelle montagne. Acqua che passava sulla terra leggera, scivolando dai bacini di raccolta, serpeggiando in piccoli canali prima scavati nella roccia poi modellati nell’argilla e infine tracciati nella terra giù fino alle radici delle piante di tabacco. E la sera, quando il sole ardente che batteva il villaggio e asciugava i mazzi di foglie stese a essiccare andava a finire dietro le creste dei monti Hajar, Obaid discendeva sempre gli stessi sentieri e ritornava sempre attraverso gli stessi i passi che ogni volta lo riportavano fedeli a casa.
Quel giorno Obaid ci fece promettere che quando sarebbe morto ci saremmo presi cura del suo corpo assicurandogli una degna sepoltura. Abadilah fu molto sopreso perchè normalmente un musulmano non chiederebbe mai una cosa simile a un cristiano ma Obaid era molto preoccupato: non aveva più famiglia, viveva con una sorella ancora più anziana e il suo villaggio ormai era popolato solo da stranieri, Indiani, Pakistani, lavoratori arrivati dallo Sri Lanka, dal Nepal e da ogni altro angolo del subcontinente indiano. Il vecchio temeva che nessuno si sarebbe preoccupato di lui una volta morto e voleva essere certo di venire sepolto secondo le usanze della sua religione. Si trattava di un tema molto importante perché se il corpo non fosse stato trattato propriamente Obaid avrebbe corso il rischio di vedersi negata la possibilità di ascendere al cielo quando verrà il giorno in cui tutti ritorneremo ad Allah.
Quando venne suo il momento Obaid pronunciò con un filo di voce le ultime parole di un buon musulmano: “Sono testimone che non c’è altro dio all’infuori di Allah". Poi gli chiusero gli occhi, lo coprirono con un lenzuolo pulito e iniziarono i preparativi per la sepoltura. Nessuno gridò, non si strapparono I capelli, lo piansero sommessamente perché come dice il Corano quando un figlio muore gli occhi piangono e i cuori soffrono ma non faremo mai nulla che non sia gradito al Signore. Lo lavarono tre volte, nel modo in cui ci si lava prima delle preghiere; la prima fu con acqua, la seconda con foglie di loto profumato e la terza, l’abluzione finale, con la canfora. Gli unirono le mani nel segno di supplica, lo avvolsero in tre sudari di tessuto bianco, buono ma non troppo costoso e lo legarono come d’usanza sopra la testa, ai piedi e due volte attorno al corpo. Poi aspettarono che il sole passasse mezzogiorno per rendergli le ultime orazioni di rito. Poche parole recitate in silenzio, senza prostrarsi e gli uomini del villaggio lo accompagnarono alla collina delle sepolture.
Obaid ci guidava attraverso le vallate, vagavamo apparentemente alla cieca andando dietro a mucchi di sassi uguali a tutti gli altri intorno, seguivamo segnali di quelle montagne che solamente lui riusciva a decifrare. Fino a quando trovammo la pista abbandonata tra le colline vicino a Showkah. “Ah, si, la pista di atterraggio. Quando la trovai per la prima volta in mezzo alle montagne pensai fosse solo una traccia e che non fosse mai stata completata”. Pensammo che gli inglesi della compagnia l’avessero abbandonata perché non c’è petrolio qui tra i monti Hajar, anche se pure loro in un tempo molto lontano sono stati fondo del mare. Ma un inverno ritornammo con due piloti che avevano volato sopra queste montagne e loro regalarono a Obaid delle vecchie fotografie di un aereo proprio su quella pista.
Parlava con voce bassa il vecchio Obaid. Gli piaceva scendere alle sorgenti d’acqua dolce di Masafi ed era sempre benvenuto nella dimora dello sceicco. Gli anziani raccontano ancora di quella volta in cui da giovane molti anni fa gli avesse rivelato il segreto delle morti dei bambini che colpivano tutti i villaggi a ovest dei monti Hajar, e di come curarle. “E’ solo una storia del passato, che passando di voce in voce diventa leggenda”. Eravamo uno di fronte all’altro: due uomini, due culture, nati così lontano in paesi diversi e in tempi diversi eppure in quel momento così vicini. Obaid stava seduto in terra con le gambe magre e secche incrociate sotto il suo pesante vestito marrone, un kandura impolverato dal colore della terra di queste montagne a un passo dal deserto. Mi guardava dal basso verso l’alto, con il suo berretto bianco in testa, gli occhi come fessure, le guance magre di rughe e la sua rada barba bianca. Poi chiuse gli occhi e iniziò a mormorare con una voce araba monotòna, sembrava quasi che cantasse.
Obaid non lascio figli ne’ figlie, fratelli ne’ sorelle, non lasciò nessuno dietro di sé, solo la sua conoscenza di cui la gente continuerà a beneficiare per sempre. Lo deposero nella tomba come si conviene a un buon musulmano: nudo e senza cassa, avvolto in tre sudari di tela bianca a buon mercato, disteso sul fianco destro a guardare per sempre in direzione della Mecca. Sciolsero i lacci e lo coprirono con assi e pietre perché la terra non ne sporcasse il sudario poi richiusero la fossa versandoci sabbia. Lasciarono solo una pietra, uguale a tutte le altre intorno, giusto appena più grande. Non eressero lapidi, non piantarono fiori. Possa Allah avere pieta di lui: da Lui veniamo e a Lui tutti torneremo.
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