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di Matteo Arisci da Meridiani Relazioni Internazionali
Sin dall’inizio della Primavera Araba, numerosi commentatori e studiosi americani suggeriscono una legittimazione a posteriori delle politiche mediorientali del Presidente Bush. La tesi sostenuta è che Barack Obama stia lentamente abbandonato l’approccio pragmatico-realista dello “status-quo” in Medio Oriente – che ha caratterizzato buona parte del suo mandato – per appoggiare l’ondata di sollevazioni popolari che stanno radicalmente cambiando la regione, rispolverando quindi la “dottrina Bush”, l’esportazione della democrazia.
In realtà, la scelta della Casa Bianca appare ancora una volta piuttosto pragmatica. Si sostengono apertamente i popoli che chiedono democrazia e che sfilano nelle piazze perché non si può ovviamente fare altrimenti come si è visto nel caso della Libia di Gheddafi: molti governi hanno impiegato del tempo prima di sposare la causa dei rivoltosi, ma poi è diventata una scelta inevitabile. Al di là delle dichiarazioni di Obama, è tuttavia semplice capire che alcuni regimi rimarranno “intoccabili”. E’ difficile immaginare gli Stati Uniti proporre sanzioni verso l’Arabia Saudita come sta avvenendo nel caso della Siria di Assad.
I falchi neo-con più irriducibili indicano nell’Iraq post-Saddam un esempio per la regione che ha influenzato i “moti” degli ultimi mesi. Sostenere i meriti di George W. Bush nelle attuali sollevazioni mediorientali è capzioso almeno quanto sostenere i meriti di Obama; sulla sponda democratica alcuni attribuiscono al discorso del Cairo del 2009 un valore quasi “messianico”. Come analizzato sulle nostre pagine virtuali, le rivolte dei Paesi arabi rispondono a numerose cause (storiche, culturali, contestuali, economiche, sociali).Nel discorso del Cairo del 2009, Obama aveva cercato di segnare una cesura netta con l’amministrazione Bush e l’interventismo neo-con. Aveva messo l’accento sull’utilizzo della diplomazia come strumento principale della politica estera con la classica postilla “ogni volta che è possibile”. Il Presidente democratico non ha mai negato, sin dalla sua campagna elettorale, la possibilità del ricorso alla forza.
Aveva, inoltre, auspicato la nascita di uno Stato palestinese e, allo stesso tempo, il riconoscimento da parte di Hamas dello Stato israeliano. Il classico colpo al cerchio e alla botte. Ora Obama ha sostenuto, con una forte presa di posizione, il ritorno ai confini pre-Guerra dei sei giorni. Nonostante Netanyahu abbia già avuto modo di opporsi a questa proposta, è indubbio che con questa dichiarazione la Casa Bianca abbia cercato di accattivarsi i consensi della piazza mediorientale e di imporsi nuovamente come referente credibile in questa fase di cambiamento. Alle dichiarazioni dovranno seguire fatti concreti. Per il momento sul tavolo c’è la pecunia. Obama propone quello che avrebbe dovuto fare l’Europa: un piano di aiuti e di prestiti per aiutare le economie e garantire stabilità e la costruzione di nuove istituzioni. Non si parla delle stesse cifre, ma ovviamente, l’effetto desiderato è quello del Piano Marshall.Oltre alla scelta pragmatica legata ad interessi, ci sono dietro i soliti ideali americani e la retorica legata al passato della Nazione. Da sempre, la politica estera di Washington non fa che oscillare continuamente tra quattro “scuole di pensiero”, quattro approcci brillantemente messi in evidenza da Walter Russel Mead nel 1992:
“Americans through the centuries seem to have four basic ways of looking at foreign policy, which have contrasting and sometimes complementary ways of looking at domestic policy as well. Hamiltonians regard a strong alliance between the national government and big business as the key both to domestic stability and to effective action abroad, and they have long focused on the nation’s need to be integrated into the global economy on favorable terms. Wilsonians believe that the United States has both a moral obligation and an important national interest in spreading American democratic and social values throughout the world, creating a peaceful international community that accepts the rule of law. Jeffersonians hold that American foreign policy should be less concerned about spreading democracy abroad than about safeguarding it at home; they have historically been skeptical about Hamiltonian and Wilsonian policies that involve the United States with unsavory allies abroad or that increase the risks of war. Finally a large populist school I call Jacksonian believes that the most important goal of the US government in both foreign and domestic policy should be the physical security and the economic well-being of the American people”.
Se tentiamo di tradurre in termini più “classici” queste quattro correnti, potremmo suggerire che gli hamiltoniani possono essere accostati alla scuola realista. I wilsoniani corrispondono ai classici i liberali. I jeffersoniani sono una corrente non interventista, se non addirittura pacifista, ascrivibili alla fazione più a sinistra e liberal del Partito Democratico. I jacksoniani, anche loro più votati al non intervento, rappresentano la corrente più “populista” e isolazionista (molti aspetti del movimento del Tea Party possono oggi essere ascritti alla “scuola” jacksoniana).
Prima della fine del mandato di Bush, Daniel Hamilton ha analizzato la politica estera dei presidenti americani degli ultimi vent’anni seguendo queste quattro categorie:
“If one were to characterize recent US presidencies in terms of these four approaches, one would say that the George H.W. Bush administration was uniformly composed of Hamiltonians; that the Clinton Administration was an uneasy blend of liberal Wilsonians, Jeffersonians and Hamiltonians; and that the presidency of George W. Bush began as an amalgam of Jeffersonians, neo-conservative Wilsonians and Jacksonians. George W. Bush came to office proclaiming such Jeffersonian themes as the need for ‘selective engagement’ and a ‘humble’ foreign policy, but notably excluded many Hamiltonians, who were the legacy of his father’s administration – people such as Brent Scowcroft and James Baker, who were anathema to George Junior. Before the new administration could articulate its particular approach to foreign policy, however, the attacks of September 11 empowered the neo-conservative Wilsonians, enraged the Jacksonians and silenced the Jeffersonians, resulting in an historical anomaly – an alliance of Wilsonians and Jacksonians. The next US administration is likely to offer a different blend of traditions”.
In questo senso è possibile dare una connotazione alla politica estera della presidenza Obama, inizialmente hamiltoninana, ossia di stampo realistica e pragmatica (si vedano ad esempio le scelte attuate con la Cina). In Medio Oriente, gli eventi stanno spingendo la presidenza ad adottare una retorica decisamente wilsoniana, con richiami alla missione morale degli Stati Uniti, all’espandersi dei diritti fondamentali e, va da sé, della democrazia legata al modello economico americano. Tra gli elettori di Obama prevalgono in parte i jeffersoniani, contrari allo stesso intervento in Libia. Mentre nel campo della destra sopravvive forte la commistione tra wilsoniani neo-con e jacksoniani del Tea-Party (come accennato prima e come trattato in uno scorso articolo su Ron Paul).
La matrice comune a Bush e Obama è quindi quella degli ideali wilsoniani. Basta questo per poter sostenere una riabilitazione delle politiche di Bush e una comunanza di intenti tra i due presidenti?
Obama non sta diventando simile a Bush. Possiamo piuttosto mettere in evidenza una nuova fase della sua presidenza, dettata dalle circostante, decisamente più “wilsoniana”. L’idea dell’ “esportazione della democrazia” è vecchia quanto l’America stessa. E’ inscritta nel “manifest destiny” dei padri fondatori.
La pistola fumante della coincidenza di intenti tra il “nuovo” Obama del discorso al Dipartimento di Stato e George W. Bush è contenuta, secondo alcuni, in questa frase:“It will be the policy of the United States to promote reform across the region, and to support transitions to democracy”. All’Università del Cairo, Obama aveva invece pronunciato: “No system of government can or should be imposed upon one nation by any other”
Nell’ottica neo-con queste frasi sono in aperta contraddizione, la prima viene letta automaticamente come in sintonia con l’interventismo di Bush. In realtà bisogna fare attenzione a due parole chiave: “promote” e “impose”. Almeno a parole, Obama intende promuovere il cambiamento già in atto. Si parla quindi di aiuti. Bush tentò di imporlo manu militari. Se gli ideali possono essere simili, i metodi segnano una differenza profonda.
C’è da ricordare che l’intervento in Iraq partì in maniera unilaterale e sotto falsi pretesti. Se l’obiettivo dichiarato era quello dell’ “esportazione della democrazia”, dietro ad esso si celavano sicuramente altre intenzioni quali obiettivi geopolitici, economici ed interessi privati. Il tempo ci dirà se questa nuova (e allo stesso tempo vecchia) dottrina obamiana-wilsoniana potrà avere successo e se anche in questo caso i secondi fini prenderanno il sopravvento sui primi.
Photo credit: Ethan Hein/ flickr CC
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