In queste prime settimane del 2015, gli Stati Uniti di Barack Obama hanno iniziato a seguire strade del tutto nuove o comunque poco battute dalla tradizionale diplomazia americana.
Il presidente, dopo aver interrotto una visita ufficiale in India, si è precipitato in Arabia Saudita per partecipare ai funerali del re Abdullah e per conoscere immediatamente il suo successore, il fratello più giovane.
Una tappa lampo, determinata dalla volontà di Washington di riannodare i rapporti un po’ sfilacciati con la dinastia saudita, dopo le aperture americane all’accordo sul nucleare iraniano e verso le primavere arabe del 2011.
Ciò anche nel tentativo di convincere gli arabi a non tenere troppo basso il prezzo internazionale del petrolio e tutelare quindi le nuove risorse di greggio ottenute negli Usa con la tecnica del fracking.
Sempre sul fronte mediorientale non si può fare a meno di notare anche le nuove tensioni con l’Israele di Benjamin Netanyahu.
I rapporti, anche personali, tra il leader del Likud, il partito conservatore, e Barack Obama sono sempre stati molto diversi dai tradizionali legami di stretta alleanza che hanno, tranne rari casi, sempre caratterizzato le relazioni Usa-Israele.
Netanyahu non ha mai accettato l’insistenza con cui il presidente americano ha chiesto al suo paese di negoziare la pace con i palestinesi di Abu Mazen sulla base dei confini del 1967, quelli determinati dalla Guerra dei Sei Giorni.
Non solo, il premier ha sempre visto con notevole timore per la sicurezza del suo paese il tentativo americano di giungere ad un accordo con Teheran riguardo il nucleare iraniano.
Negli uItimi anni, i contrasti tra i due si sono manifestati in forme differenti.
Ad esempio, l’annuncio israeliano del 2010 di aumento degli insediamenti ebraici nei territori che, secondo i confini del 1967, dovrebbero far parte di un futuro stato palestinese indipendente.
Una scelta operata proprio quando era in visita a Tel Aviv il vicepresidente Joe Biden.
Oppure ancora il rifiuto di accettare come base del negoziato di pace i confini del 1967, effettuato da Netanyahu nel 2011, proprio nel bel mezzo di una conferenza stampa nell’Ufficio Ovale.
O ancora, le affermazioni del premier, durante le elezioni presidenziali del 2012, nettamente a favore dell’avversario di Obama, il repubblicano Mitt Romney.
Infine, è di questi giorni la polemica riguardo l’intervento che Netanyahu farà a marzo di fronte al Congresso, concordato con lo speaker della Camera John Bohner, ma non con la Casa Bianca.
Un contrasto voluto dalla nuova leadership del Gop, dopo le elezioni di midterm dello scorso novembre, ma che rischia di aggravare ancora di più le già tesissime relazioni tra l’amministrazione Obama e Netanyahu.
Non solo, pare che l’attuale presidente americano stia agendo affinchè l’attuale premier non venga riconfermato nelle prossime elezioni parlamentari israeliane di marzo.
Secondo molte fonti giornalistiche, la Casa Bianca avrebbe inviato nel paese mediorientale diversi importanti esponenti della vittoriosa campagna presidenziale del 2012 allo scopo di indebolire le chance di rielezione di Netanyahu.
Non solo, un gruppo politico sostenuto co fondi del Dipartimento di Stato americano starebbe manovrando per ottenere la sconfitta elettorale di Netanyahu.
Se così fosse, la condotta diplomatica statunitense contro un alleato come Israele sarebbe una novità assoluta.
Ma se i tradizionali legami con Tel Aviv sembrano allentarsi, gli Usa, nelle ultime settimane, sono intervenuti con grande energia a favore della nuova Grecia di Alexis Tsipras, il leader di Syriza, che ha trionfato alle elezioni dello scorso 25 gennaio.
Le ragioni di simile interessamento americano sono molteplici.
In primo luogo la comune opposizione di Tsipras e Obama alle politiche di austerity che hanno esteso nel tempo la crisi economica iniziata nel 2008 e che, in Europa, hanno quasi determinato la bancarotta di Grecia e Spagna.
In seconda battuta, ad avvicinare Washington e Atene ha anche contribuito il tentativo di Mosca di far sentire la sua influenza nella crisi economica europea.
Vladimir Putin, di fronte alle risposte tedesche e dell’Unione Europea, poco inclini ad accettare un allentamento degli obblighi di pagamento del debito greco verso i partner europei, ha preso la palla al balzo e ha proposto al nuovo governo Tsipras di aiutarlo con risorse economiche russe fresche e subito disponibili.
Una ingerenza negli affari interni continentali che gli Usa non possono permettersi, tanto più dopo il deterioramento dei rapporti tra Washington ed Ankara.
I contrasti tra l’amministrazione americana e il governo turco di Receyp Erdogan hanno indebolito il presidio occidentale intorno ad Israele e, in tale contesto, la Grecia è tornata a ricoprire un ruolo centrale.
Per cui, in ambito europeo, Obama non può permettersi che Atene si avvicini troppo a Mosca e, in ambito mediorientale, Washington ha un inedito bisogno di una rinnovata alleanza con la Grecia proprio in vista di una sostituzione della Turchia come principale legame occidentale con Tel Aviv.