Roma, dal corrispondente
Sono giorni impegnativi per la politica USA. Dopo l’invito rivolto dai Repubblicani al premier israeliano Netanyahu a parlare davanti a Camera e Senato riuniti, adesso arriva la lettera inviata al leader iraniano. La missiva, che porta la firma di 47 senatori re della “destra americana”, consiglia ai vertici del Paese mediorientale di non siglare alcun accordo sul nucleare, considerando il fatto che il trattato potrebbe diventare carta straccia con l’avvento del prossimo presidente. Il tutto, e questo è il nodo del problema, senza alcuna considerazione di Obama, né tantomeno delle sue opinioni in merito.
Finora le critiche si erano limitate per lo più alla politica interna (immigrazione e Obamacare in primis) e, nonostante le distanze tra le vedute del Presidente e quelle dell’opposizione su temi quali Iraq, Afghanistan, Siria e ISIS fossero siderali, non si era arrivati mai ad una così aperta condanna pubblica dell’operato del comandante in capo delle forze USA in materia di politica estera. Questa, poi, non si circoscrive soltanto ad una presa di distanza dall’operato politico, ma si configura come una vera e propria opera di commissariamento, con cui si cerca di incrinare l’affidabilità di Obama agli occhi del mondo e che, indirettamente, impatta in maniera negativa anche sull’immagine che gli USA trasmettono di sé all’esterno, in un momento non facile per la politica estera a stelle e strisce. Il caso ruota attorno all’accordo sul nucleare con l’Iran, di cui il presidente Obama è un grande fautore, così come gli altri paesi del 5+1, e che invece non sembra digeribile per repubblicani e, soprattutto, Tel Aviv.
Nel discorso tenuto da Netanyahu, a parte le parole di rito per il Presidente, è stato chiarissimo l’attacco diretto ad Obama e alla sua scelta di concedere il beneficio del dubbio a Teheran in cambio di – a detta dei detrattori – un impegno blando di non proliferazione della durata di 10 anni, ma quello che non si è visto durante questa requisitoria infiammata è stata l’alternativa credibile al cosiddetto “cattivo accordo”. Nel suo intervento, interrotto da frequenti e scroscianti applausi, al premier israeliano è difatti mancata la proposta che avrebbe dovuto sbancare il tavolo o quantomeno creare il ragionevole sospetto che qualcosa di diverso sarebbe possibile. Dichiarare che quanto allo studio è troppo poco e che l’unica alternativa sia la totale resa incondizionata della Repubblica Islamica, corrisponde ad affermare di non voler trovare alcun accordo. Davanti a questi presupposti, la strada intrapresa da Obama risulta di gran lunga più sensata e lungimirante. Tanto più che la posizione oltranzista non tiene conto né delle esigenze europee per una normalizzazione dei rapporti con un paese strategicamente importante come l’Iran in un periodo di relazioni problematiche con Russia e Nord Africa (principali fornitori energetici del vecchio continente), né del fatto che la politica portata avanti finora non ha sortito alcun beneficio e ancor meno è servita a tenere lontana Teheran dalla tecnologia nucleare.
Le preoccupazioni di Netanyahu e dei Repubblicani riguardo la sicurezza del popolo ebraico sono legittime e forse proprio per questo in molti si sarebbero aspettati qualche parola in più, riguardo il reale problema che minaccia la stabilità del Paese. La Palestina è una questione incombente nell’agenda di Tel Aviv molto più che l’Iran e gli ultimi avvenimenti testimoniano proprio come la tensione tra le due parti non accenni a scemare, a distanza ormai di mesi dalla fine del conflitto della scorsa estate.
Luca Arleo