Obama mostra i muscoli con i bambini centroamericani. Sono troppi ad arrivare, dice e, a fronte di una riforma migratoria che non decolla rivela che i minori, rifugiati nei centri d’accoglienza, saranno rimpatriati. L’annuncio è stato dato dallo stesso presidente che, di fronte all’emergenza umanitaria, ha deciso di optare per una soluzione drastica. Solo alcuni casi –quelli riguardanti i minori con parenti negli Stati Uniti- saranno valutati dai tribunali, per gli altri è sicuro il ritorno a casa. Da ottobre ad oggi almeno 57.000 minori sono stati presi in consegna dalle autorità statunitensi mentre cercavano di attraversare illegalmente il confine tra Messico e Usa. Per tutti una storia comune, quella di voler sfuggire all’escalation di violenza nei loro paesi d’origine. Perché le cose nel Triangulo Norte, quello che comprende Guatemala, Honduras ed El Salvador, sono peggiorate: in quest’ultimo paese, terminata la tregua con le maras, gli omicidi sono aumentati del 70%, mentre l’Honduras continua a registrare indici da paese in guerra. Da questi paesi oggi non si emigra più solo per sottrarsi alla povertà, ma per evitare la legge delle maras, le bande giovanili che hanno trasformato il Triangulo Norte nella regione più insicura e violenta del mondo. Il sogno americano, per i minori che vogliono sottrarsi al reclutamento, non è più un’opzione, ma una necessità.
Sono gli stessi genitori ad inviare i propri figli verso un viaggio di bibliche proporzioni attraverso il Messico, quattromila chilometri fino al deserto e alla frontiera degli Stati Uniti, sperando che là, almeno possano essere accolti. Non sarà così. Obama dice di avere molta compassione per questi minori, ma li farà comunque riportare a casa. I centri di accoglienza scoppiano, i giudici sono pochi e i conservatori stanno facendo il diavolo a quattro per evitare che, di fronte al compimento dell’iter legale, nuove ondate di minori giungano a premere sull’Arizona e sul New Mexico. Secondo le stime, se non si pone un freno, saranno più di centomila per la fine dell’anno.
Alla Casa Bianca, i presidenti del Triangulo Norte sono stati ricevuti da Obama. Facce tirate, pochi sorrisi, l’emergenza di oggi ha radici lontane ed è precisamente un’eredità delle guerre centroamericane, sulle quali pesa come un macigno l’operato di Washington. Nessuno lo dice –nemmeno l’ex guerrigliero Sánchez Céren che quella guerra l’ha combattuta- ma si parla diplomaticamente di responsabilità comuni. I dati di fatto legano la lingua ai presidenti. I tre paesi dipendono dagli Stati Uniti, una dipendenza sorta dalla necessità, dall’onere che comporta avere milioni di emigrati che inviano a casa migliaia di milioni di dollari ogni anno. Otto Pérez ha proposto un Plan Centroamerica, sulla linea di quello che è stato il Plan Colombia ed è il massimo che si può proporre. In sostanza, i presidenti centroamericani chiedono soldi. Soldi per implementare la sicurezza, soldi per frenare il crimine organizzato, soldi per non fare arrivare i propri bambini alle porte del sogno americano. Obama assente, ma intanto al Congresso, che andrà in vacanza tra una settimana, arrivano frecciate dai repubblicani che fanno pensare che tutto questo non sia altro che fatica sprecata. I conservatori hanno pronto un piano alternativo: costa tre volte meno e si centra sul controllo e la difesa delle frontiere patrie. In mezzo, ci sta il progetto alternativo, un piano bipartisan che prevede un periodo di prova di 13 anni per gli undici milioni di ilegales, pena il rimpatrio al primo sgarro. Unico requisito per l’approvazione: che Obama mostri i muscoli. Con i bambini.