Obbligano al test di italiano, ma cancellano la libertà

Creato il 08 febbraio 2011 da Bruschidettaglil

Gasmi a Casablanca era un fotografo, adesso fa il magazziniere. Vive a Confienza, 60 chilometri da Pavia, 1700 abitanti, con sua moglie Messoudi e il piccolo Ryan (nella foto lei lo tiene in braccio tra i banchi). Gli chiedo quando hanno deciso di venire in Italia, perché. Gasmi non ci pensa molto: “E’ stato uno sbaglio”. Perché adesso per poter diventare italiano gli fanno fare un test. E perché non ha la libertà di essere quello che era nel suo Marocco. “Adesso possiamo dire solo sì signora”. Me lo dice Ludmilla, 53 anni, ucraina. Fa la badante, in una famiglia che ha adottato lei e suo marito da undici anni, questo la rende felice, sa che sta bene. Però in Ucraina lei era una professoressa di ucraino e lui di ginnastica. Poi un giorno quando Russia e Ucraina hanno preso strade diverse il suo stipendio si è perso nel nulla. Invece di soldi le hanno dato un sacco di farina e una cassa di vodka. Impossibile con questi far studiare all’università di ingegneria e di legge i suoi figli. Così sono partiti. Le chiedo se i suoi ragazzi la raggiungeranno. Le viene da piangere. “Mio marito non vuole. Dice che ci siamo già noi a doverci accontentare, a doverci preoccupare dello stipendio senza poter fare il lavoro di prima”. Così penso che lo Stato chiede ai suoi cittadini stranieri di fare un test per dimostrare che conoscono abbastanza bene l’italiano, lo fa con una prova che si basa su un livello di italiano definito “di sopravvivenza” perché richiede conoscenze base, utili per cavarsela nel quotidiano. Però è lo stesso Stato che non riesce a trovare un sistema per riconoscere la professionalità di chi lascia la sua casa e cerca un’altra vita in Italia. “Vedevo nei modi di chi tornava quell’atteggiamento di chi ha visto che si può fare un’altra vita, pensavo di trovare l’America”. Parshotam ha cercato la sua America in Italia. Ha lasciato l’India a 21 anni. Mi racconta che nessuno nella sua famiglia aveva mai abbandonato il Punjab. Lui invece lo ha fatto. Ha portato con sé Jeetpal (nella foto loro due insieme al figlio Om), sua moglie e il loro primo figlio Shivam, che adesso ha 14 anni. In Italia è nato Om, che adesso ha due anni e che ha pianto per tutta la durata del test, tra le braccia dei ragazzi del liceo artistico Volta che si sono improvvisati baby sitter per permettere alle mamme e ai papà che non sapevano a chi lasciare i bambini di poter svolgere la loro prova. Parshotam mi racconta che quello con Jeetpal è stato un matrimonio combinato, ma sottolinea che sono felici. Lei sorride dolce, avvolta in un abito rosa. Non dice nulla. Lui è anche la sua voce. In alcuni ho visto nostalgia, in altri serenità. Tra le 35 persone presenti al test di Pavia ho visto la tranquillità dei giovani, la paura degli anziani. E non dipende sempre da quello che hanno lasciato né da quello che hanno trovato. Penso a Ludmilla e a Yevheniy. Sono entrati in una scuola per rispondere alle domande di un esame. Loro che per 25 anni in Ucraina hanno insegnato sono dovuti tornare tra i banchi, entrare in una scuola sapendo che non sarà mai più la stessa cosa.


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