Pubblicato, dopo una gestazione decennale, nel 1859, Oblomov divenne subito un caso letterario, con cui dovettero confrontarsi finanche i mostri sacri Dostoevskij, Tolstoj e Turghenev (un esempio su tutti, il principe Myskin, protagonista de L’idiota). Dal nome stesso del protagonista del romanzo è stato coniato un termine, oblomovismo (per altro, già utilizzato in chiave ironica da Goncharov, nello stesso romanzo), a indicare un’indolenza cronica dettata non da una generica mancanza di buona lena, ma da una vera e propria visione del mondo, culturalmente radicata.
La trama del romanzo è apparentemente semplice e lineare: Oblòmov, aristocratico in decadenza, è cresciuto in un’atmosfera ovattata e iperprotettiva nella proprietà di famiglia, l’Oblomovka. Divenuto adulto, si trasferisce a Pietroburgo per intraprendere la carriera di funzionario governativo. Il lavoro d’ufficio e la vita di società ben presto vengono a noia al giovane, deluso dal non trovare in essi alcuna traccia della bontà e della purezza a cui era stato abituato nell’infanzia e che aveva preso a considerare, nelle sue fantasticherie, come la norma tra gli uomini.
Avendo ereditato la proprietà di famiglia, che per la verità gli poteva consentire una rendita appena dignitosa, decide di ritirarsi dalla società. Lentamente, Oblòmov sprofonda in un’apatia assoluta, circondato da pochi servi, tra i quali il burbero, ma fedele Zachar, suo doppio e protesi vivente, lavoratore per il solo motivo di non poterne fare a meno.
Da questa apatia cerca di risollevarlo Stolz, vecchio e caro amico, perfetto alter-ego: quanto Oblomòv è privo di stimoli, tanto Stolz è pieno di spirito d’iniziativa. L’amico riesce per un certo periodo a coinvolgere Oblòmov, tanto che questi finisce addirittura col fidanzarsi con la bella e intelligente Olga. Ma una volta resosi conto che anche l’amore ha la sue noie, Oblòmov non se la sente di convolare a nozze e lascia libera Olga, la quale finisce con lo sposare Stolz. Da par suo, Oblòmov trova nella governante Agafja, gran lavoratrice, senza pretese mondane e di limitati orizzonti, la compagna che gli darà un figlio, il quale, al momento della sua morte, verrà affidato dalla moglie a Stolz e Olga, affinchè riceva un’educazione sana, lontano dalle indolenze oblomoviane.
A una prima lettura, il romanzo parrebbe la rappresentazione del passaggio tra un vecchio tipo di aristocrazia passatista e indolente a una nuova dinamica e innovatrice. In realtà, Oblòmov e Stolz sono complementari e nella loro complementarietà, l’anello debole è proprio l’uomo del fare Stolz; è lui, infatti, che ha più bisogno di Oblòmov, che non viceversa, in quanto, nell’estrema purezza d’animo dell’amico indolente, il dinamico e positivo Stolz può ritrovare quell’oasi d’infanzia cristalizzata, in cui potersi rigenerare per continuare a sostenere la complessità della vita sociale. Stolz comprende e in parte condivide la volontà (o non volontà, a seconda del punto di vista) di Oblòmov, ma non può tollerare la sua rappresentazione indecorosa.
Goncharov, più che stigmatizzare l’indolenza di Oblòmov, mostra il dissidio insanabile, tipico della modernità e della contemporaneità, tra l’ideale e il reale. Lo spirito contemplativo di Oblomov e lo spirito attivo di Stolz, seppur legati da affetto disinteressato e dalla naturale attrazione degli opposti, non riescono più a comprendersi, a fondersi. Il dilemma ha scisso Amleto in due.
E’ la rappresentazione di un mondo che sta perdendo ogni fede, che non sia quella nella tecnica e nel progresso, in cui i rapporti umani son sempre più convenzionali e sempre meno autentici e le anime pure come Oblòmov non possono fare altro che auto-emarginarsi, prima di essere emarginate dagli altri.