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L’avanzata poderosa dello Stato Islamico, seguita dall’altrettanto inattesa capacità di mantenere il controllo dei territori conquistati; i bollori di Gaza; la confusione libica; l’espansione della minaccia jihadista; i sauditi: threat fondamentali che aumentano i controlli di sicurezza.
Israele e lo Stato Islamico
L’intelligence israeliana vede, e spesso provvede. Osserva tutto quello che accade nella regione mediorientale, ha satelliti a buona definizione e ben orientati. Per questo gli Stati Uniti hanno pensato di rivolgersi a Tel Aviv per avere immagini a definizione (e angolatura) migliore delle proprie, su quello che sta succedendo in #Iraq.
Israele ha risposto positivamente alla richiesta dell’alleato storico. Ha fornito i file sulla copertura, permettendo agli Usa di avere una ricostruzione più completa dei movimenti dello Stato Islamico. E quelle immagini sono state importanti per la pianificazione dei raid.
Fidi alleati, gli israeliani. Un po’ meno la reciproca americana: gli Stati Uniti hanno cancellato le marcature, e dopo l’editing inviato i video a turchi e sauditi. Lo scopo era univoco – debellare la piaga “Califfo” – ma il modo forse non è stato gradito troppo dal governo di Netanyahu – che però non ha replicato alle indiscrezioni sulla “diffusione” fornite da Reuters.
Che Tel Aviv abbia un problema con l’entità IS è indubbio: teme infiltrazioni nell’universo islamista jihadista a Gaza, teme ritorsioni interne, segue attivamente quello che accade sul Golan – anche se “il fronte” è leggermente diverso e più complicato.
Mercoledì della scorsa settimana, il ministro della Difesa israeliano ha dichiarato lo Stato Islamico “organizzazione non autorizzata”, ponendo le basi giuridiche per la caccia a eventuali cellule nel proprio territorio o in Cisgiordania, e permettendo così di andare a colpire anche la singola persona che incita le gesta del Califfo.
Una questione che esula dal contesto territoriale siro-iracheno dove il Califfo conduce i propri affari. Si ampia il fronte.
Più a est, l’Iran
L’Iran ha dichiarato attraverso il ministro degli Interni Abdolreza Rahmani di aver arrestato diversi cittadini afghani e pakistani che stavano attraversando il proprio territorio per finire poi tra le file dello Stato Islamico – ma non ci sono specifiche sul numero delle persone bloccate e sul luogo dei fermi.
Un viaggio da est (confine iraniano con Afghanistan e Pakistan) verso ovest (confine iracheno), per arrivare a combattere al fianco del Califfo. L’Iran inizia ad avere problemi interni con le forze jihadiste sunnite.
Per il momento il territorio è utilizzato solo come rotta, ma dato l’orientamento sciita del paese, non possono essere escluse azioni interne degli uomini di Baghdadi. Per questo, e per l’alleanza strategica con l’Iraq (basata tutta sulla volontà d’influenza mediorientale dei mullah), si sta mostrando molto attiva nella lotta al Califfato. Un paio di settimane fa, il presidente curdo Masud Barzani aveva espresso gratitudine per il sostegno avuto dalle forze iraniane schierate nel suo paese. Questione che aveva suscitato un certo scalpore, sia perché gli iraniani hanno annosi attriti con i curdi (quelli locali del Pjak), sia perché aveva posto l’Iran in una coalizione (anti-Isis sul suolo di Baghdad) al limite del credibile, con gli Stati Uniti che avevano operato il supporto aereo alle forze di terra (sciite locali filo-iraniane, curde, irachene e iraniane, appunto). Coalizione che si è riproposta con successo nella battaglia di Amerli: nell’occasione erano girate immagini (sulla cui veridicità qualcuno aveva sollevato dubbi) del comandante delle Qods Force Qassem Suleimani, presente nella città a sud di Kirkuk.
Il “muro” arabo
La risposta alle manovre dello Stato Islamico arriva anche dall’Arabia Saudita – molto relativa ai propri interessi. I sauditi alla minaccia del Califfato hanno risposto in modo ambiguo – con la stessa ambiguità con cui hanno per lungo tempo portato avanti i rapporti con il resto del mondo terrorista sunnita (anche qaedista): legami, finanziamenti sottotraccia, fino a che la questione non è uscita di mano e creato problemi interni.
Lo Stato Islamico, che ai tempi in cui era ancora Isis era una delle fazioni estreme dei ribelli siriani “non di certo malvista” da Riad, ha ormai messo nel mirino il regno: la monarchia araba è “troppo moderata” e prossima all’Occidente, dunque è un nemico.
Re Abdullah ha allora deciso di costruire una vera e propria barriera contro eventuali, quanto possibili, infiltrazioni degli uomini del Califfato. Scrive Guido Olimpio sul Corsera che l’apparato di difesa sarà costituito da «78 torri di sorveglianza e comunicazione, 50 telecamere, 50 stazioni radar, 3.397 soldati, 60 ufficiali supervisori, 8 posti di comando e controllo, 3 unità di pronto intervento, 32 postazioni per interrogatori. Apparato che ruoterà attorno a quattro grandi complessi a Tarif, Rafha, al Uqayqilah e Hafar al Batin. Ogni base includerà ospedale, prigione, sede dell’intelligence, poligoni per il training, moschee e luoghi si svago».
Il regno del Golfo, sebbene stretto alleato statunitense, ha scelto – ancora una volta – di rispondere sulla base di interessi personali alle minacce regionali: niente intervento diretto, con le armi di Riad (fornite dagli Usa) che restano ferme in casa e non vanno ad aiutare i partner regionali.
Fuori dallo Stato Islamico continua il caos libico
Allo stesso tempo, un altro fronte caldo resta la Libia. Nel Nord Africa è stata segnalata la presenza di gruppi legati alla galassia del Califfato, ma la situazione di Tripoli e dintorni resta un caso a parte, che elude dalle questioni dello Stato Islamico, almeno per il momento.
Mentre infuocano ancora le battaglia tra islamisti, esercito regolare e milizie varie (tra cui quelle del generale Haftar), il governo libico ha fatto sapere di aver intercettato un cargo all’aeroporto di Kufra, nel sudest del paese, che trasportava armi.
Per i libici non c’è dubbio: gli armamenti arrivavano dal Sudan – paese che ha legami vecchi con le realtà islamiste radicali e per molto tempo è stato il centro di addestramento per i combattenti qaedisti. Khartoum è corsa a chiarire che tutto è frutto di un fraintendimento, e che quelle armi in realtà erano dirette verso una contingente congiunto libico-sudanese, schierato sulla linea di frontiera per combattere il contrabbando e la tratta di esseri umani.
Ma i libici non ci hanno creduto e hanno accusato il Sudan di aver violato la sovranità nazionale inviando quelle armi ai ribelli. Conseguenza, l’espulsione immediata dell’attaché militare locale.
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